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Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (31)

Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (31)

Apr 21

 

 

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31. Deleuze e Nietzsche: l’ordine dell’Anticristo

a) L’ANTICRISTO IN NIETZSCHE: L’ERA POSTCRISTIANA

Senza la fede cristiana ‒ diceva Pascal ‒ voi diventereste per voi stessi, come pure la natura e la storia, un monstre et un chaos“. Noi abbiamo adempiuto questa profezia: dopo che il secolo XVIII, debole e ottimista, ebbe abbellito e razionalizzato l’uomo. [124]

È proprio così: la nostra epoca è senza fede cristiana, essa è nichilista fino in fondo e questo perché noi viviamo in un nuovo ordine delle cose. Anticristo in tedesco si dice Antichrist e significa letteralmente anti-cristiano, non rimanda, dunque, alla figura del libro dell’Apocalisse. Ordine dell’Anticristo è invece l’espressione adoperata da Deleuze nell’appendice “Klossowski o i corpi linguaggio” di Logica del senso per indicare un ordine delle cose nuovo: la realtà del divenire, del demone della materia (simulacro), della differenza in sé, del caos, dell’abisso, dell’informe e dell’impersonale. Deleuze si ispira in questa appendice ai romanzi di Klossowski, in particolare a Il Bafometto. L’anticristo è anche il titolo di una famosa opera di Nietzsche, in cui l’autore sferra una critica acuta e profonda contro il cristianesimo. Il cristianesimo viene letto da Nietzsche come platonismo per il popolo. Come già mostrato Deleuze in Logica del senso fin dalla prima serie trova un punto di rottura nella filosofia di Platone nel divenire e ha tutta l’intenzione di rovesciare Platone, così come voleva fare Nietzsche. Il compito di questa sezione è di descrivere questo nuovo ordine delle cose o caosmos, una realtà al di là del bene e del male, un mondo per il super-uomo venturo. Il Bafometto, definito da Klossowski come “il principe di tutte le modificazioni”, è il simbolo della nostra epoca nera, dell’ordine dell’Anticristo contrapposto all’ordine divino [125].

Allora qual è il vero significato anti-cristiano della nostra epoca? Qui ci viene in aiuto lo scritto di Nietzsche. Si tratta di uno scritto per pochi, come dice lo stesso Nietzsche. Non è nemmeno uno scritto facile da comprendere e perciò può essere molto facilmente frainteso. Per prima cosa si potrebbe pensare che questo testo sia stato scritto contro Cristo, e invece non è vero. Nietzsche, lungo tutto lo scritto, cerca di distinguere il cristianesimo come dottrina della Chiesa dal messaggio di Cristo, il quale forse non si sognava nemmeno di fondare una religione. Mentre la Chiesa pone il regno di Dio dopo la morte e in una realtà trascendente, nell’interpretazione nietzscheana di Cristo egli ha sempre detto che il regno di Dio è in questo mondo: qui ed ora. Oltretutto Nietzsche afferma che di cristiano veramente ne è esistito uno solo ed è morto sulla croce: infatti essere veramente cristiani significherebbe, dice Nietzsche, vivere come Cristo ha vissuto. Tutto questo non deve far pensare comunque che Nietzsche sia d’accordo con Cristo e il suo insegnamento; semplicemente questo libro non prende di mira quell’oggetto, ma un’altra dottrina: la dottrina cristiana della Chiesa. In secondo luogo si potrebbe pensare che l’intento di Nietzsche sia di carattere distruttivo e nichilista, ma non è così. Nonostante la guerra che combatte contro il cristianesimo con il martello della filosofia, certamente Nietzsche ha in mente la costituzione di un nuovo ordine delle cose, un nuovo modo di concepire la realtà, modo che mi prefiggo d’illustrare in questa sezione. Esiste certamente un anti-cristianesimo nichilista negativo che consiste nella distruzione dei simboli di quella religione e nel sacrilegio. Questo elemento, che tra l’altro trova diversi esempi nel nostro passato recente [126], lo si trova ben esemplificato ne I demoni di Dostoevskij, in cui sono descritti atti sacrileghi da parte di nichilisti: ad esempio inserire immagini a sfondo sessuale in alcuni Vangeli o un ratto accanto ad una statua della Madonna. Non penso sia questo istinto distruttivo, questo istinto di morte e risentimento, ciò che spinge Nietzsche a scrivere questo testo. Infatti la filosofia di Nietzsche semplicemente critica un certo modello considerato contronatura o contro la vita. Nietzsche contrappone un’etica o un pensiero filosofico, in cui il bene è ciò che accresce la potenza e la felicità consiste proprio in questo sentire la potenza che cresce, a un’etica della rinuncia, della morte di sé, della mortificazione del corpo e delle sensazioni, del sacrificio del piacere presente in vista di una felicità post mortem. Il problema è in primis di natura etica: la critica si rivolge soprattutto alla morale cristiana.

C’è ancora un terzo problema: i contenuti di carattere antisemita che si trovano in questo scritto. Non credo si possano fornire motivazioni valide al fine di scusare Nietzsche, tuttavia penso di dover fare alcune osservazioni sul punto: non sarebbe il primo ad essere accusato di avere scritto affermazioni anti-semite visto che, esse erano in effetti molto diffuse in un’epoca come l’Ottocento: Fichte ad esempio ne ha scritte di simili e lo stesso Marx, lui stesso ebreo, è stato accusato di anti-semitismo [127]; Gilles Deleuze suggerisce di intendere l’avversione di Nietzsche per gli ebrei come identificazione del popolo ebraico con l’inventore della figura del prete e del concetto di debito infinito (peccato originale) [128]. Detto ciò si capisce, forse un po’ meglio, perché il cristianesimo sarebbe una maledizione. Il cristianesimo è stato un movimento contronatura, contro gli istinti dell’uomo, della vita, per la generazione di un uomo buono, un uomo addomesticato. Il cristianesimo, secondo Nietzsche, non era altro che una guerra dichiarata contro lo sviluppo dell’uomo, contro il super-uomo. L’anticristo è una forma di Crepuscolo degli idoli in cui a cadere sono i valori cristiani: la morale del povero, della compassione, della rinuncia. Nietzsche spiega che la compassione risulta nociva per due motivi: moltiplica la miseria; conserva i miserabili. Nietzsche attacca tutti quegli elementi che possono essere considerati nocivi all’evoluzione dell’uomo, dannosi alla vita e quindi alla potenza. Perseguire la sofferenza e la rinuncia certamente non accresce la nostra vita. Che felicità o accrescimento di vita potremmo trovare qua se lo cerchiamo altrove in un mondo promesso? Nietzsche accusa i preti di essere dei bugiardi, di aver deciso loro cosa fosse bene e male o cosa fosse vero e falso secondo il loro comodo; ma loro non hanno prove e hanno paura di una sola cosa: la scienza. La colpa è un’invenzione del prete, così come il peccato; questi due concetti, come ha mostrato Nietzsche in Genealogia della morale, discendono direttamente da quello di debito [129]. Gesù, invece, dice Nietzsche, in realtà ha negato la colpa, altro elemento che dissocia Gesù dalla dottrina della Chiesa e dei suoi preti parassiti. Mentre Cristo insegnava un certo stile di vita come pratica evangelica, come esperienza del regno di Dio sulla terra, il cristianesimo ha fatto del crocifisso il simbolo della colpa e della sofferenza; il cristianesimo ha predicato contro la vita e gli istinti naturali dell’uomo. Sono queste considerazioni che hanno portato Nietzsche a definire il cristianesimo come maledizione; infatti dice:

Definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto della vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, furtivo, sotterraneo, meschino ‒ lo definisco l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità. Computiamo il tempo da quel dies nefastus con cui ebbe inizio questa fatalità ‒ dal primo giorno del cristianesimo! ‒ CE perché non invece dal suo ultimo giorno?C – Da oggi? ‒ Trasvalutazione di tutti i valori!… [130]

Nietzsche ci invita a segnare l’inizio di questa nuova era calcolando la data attuale rispetto alla data che lui considera come fine definitiva del cristianesimo. Il primo giorno del primo anno dalla fine del cristianesimo corrisponderebbe, rispetto alla vecchia datazione a partire dalla nascita di Cristo, al 30 settembre 1888. Così scrive Nietzsche sopra le leggi contro il cristianesimo. Quindi quest’anno rispetto alla data della fine del cristianesimo sarebbe l’anno 130.

b) KLOSSOWSKI: SOPPRESSIONE DELL’ORDINE DIVINO

Il libro di Nietzsche spiega quale ordine delle cose è stato superato e sferra una critica a questo ordine, ma ora conviene che mi accinga a descrivere come funziona quest’altro nuovo ordine. Parlerò del romanzo Il Bafometto di Klossowski usando anche il commento deleuziano di Logica del senso; in questo modo i due testi tenderanno a sovrapporsi, a cavalcare a fianco come due onde del mare. Deleuze ci mette subito di fronte all’alternativa del romanzo di Klossowski:

o ci si ricorda delle parole, ma il loro senso resta oscuro; o appare il senso, quando scompare la memoria delle parole. [131]

Il romanzo oppone l’ordine dell’Anticristo all’ordine di Dio, l’oblio alla memoria, il caos all’ordine e così via. La storia vede come protagonisti i templari. Il maestro dei templari ha il compito di garantire l’ordine degli spiriti in modo che ogni spirito (soffio) il giorno del giudizio torni al suo corpo originario. L’ordine divino segue una disposizione precisa secondo la quale ad ogni soffio corrisponde un preciso corpo. Ogni soffio dovrebbe tornare nel suo corpo il giorno del giudizio per essere giudicato da Dio stesso, ma che fare se un soffio dovesse occupare un corpo che non è il suo? A chi verrebbero imputati i peccati di un certo soggetto? Al soffio nuovo che occupa quel corpo o al vecchio soffio? Il problema, spiega Deleuze, è che si possono distinguere due cose solo fino a quando hanno un’identità, ma quando i soffi non sono in un corpo non possono essere distinti l’uno rispetto all’altro. I soffi quindi si fanno ribelli e sembrano reclamare il loro ordine. Il maestro templare si lamenta del carattere anarchico dei soffi che vogliono sottrarsi al giudizio di Dio. Un soffio un giorno arriva presso la dimora dei templari e si annuncia dicendo di essere la Santa Teresa. Santa Teresa si è innamorata di un uomo che ha deciso di rinunciare a tutto per lei, riconoscendo in lei l’unica vera provvidenza a dispetto persino di quella di Dio. Teresa viene dunque per annunciare l’inaudito: lei si è esclusa dagli eletti, d’ora in poi non ci saranno più nuovi eletti e nemmeno dannati. È la fine totale dell’ordine di Dio: non c’è più controllo sui soffi, la distribuzione dei soffi è diventata caotica, ci sono soffi che occupano più corpi e corpi che sono occupati da più soffi; ad ogni modo tutti i soffi tendono a scambiarsi i corpi. Nelle grandi correnti dei soffi i soggetti sono del tutto indiscernibili gli uni dagli altri. Il soffio di Teresa sarà insufflato nel corpo del giovane impiccato Oggieri di Beauséant, il che darà origine ad una strana creatura androgina. Oggieri risulterà essere il Bafometto, figura androgina che normalmente è rappresentata come una capra nera con il seno e il membro maschile, divinità pagana che i templari sono stati storicamente accusati di venerare. I templari si vendono al Diavolo, il gran maestro farà il suo patto e sarà accusato di nascondere nel suo podere l’Anticristo. Nel frattempo accade di tutto: il più grande caos dell’ordine degli spiriti; le espressioni che sono pronunciate modificano chi si esprime e chi riceve l’espressione; diverse scene si ripetono e i soggetti continuano a dimenticare l’avvenuto; la testa di un re viene mozzata e nonostante tutto continua a parlare. Il Bafometto e l’Anticristo sono venuti a portare una nuova verità che, sorpresa delle sorprese, è la verità di Nietzsche: l’eterno ritorno. Sebbene Klossowski affermi che non sia necessario leggere i libri di filosofia scritti da lui come Nietzsche e il circolo vizioso per capire i suoi romanzi, Nietzsche è presente tantissimo in questo romanzo. Il Bafometto è il principe dell’eterno ritorno, esso nega l’unità per affermare tutte le mutazioni, esaurite le quali tutto ricomincia da capo infinite volte e infinite volte il soggetto dimentica di averle vissute. Il Bafometto beffardo afferma che l’oblio è un modo per cancellare la colpa, semplicemente dimenticandosene. L’Anticristo si manifesta sotto forma di formichiere di fronte al maestro dei templari pronunciando discorsi blasfemi: afferma di essere la via e la verità, così come aveva fatto il Cristo, e dice inoltre che quando un dio disse agli altri dei di essere l’unico, gli altri dei si misero a ridere e morirono dalle risate, esattamente come il profeta della morte di Dio, Nietzsche stesso, aveva sentenziato.

È una nuova epoca che si annuncia: quella della venuta del super-uomo. Chi è questo super-uomo? L’uomo che ha superato la prova dell’eterno ritorno, perché da ogni prova non si esce che trasformati o si perisce con essa. Il super-uomo è l’uomo che ama la vita per sé stessa senza asservirla ad un fine, è l’uomo che misconosce il progresso e il senso delle cose al di là della sua evoluzione che si dice con una sola parola: accrescimento di potenza. La felicità è accrescimento di potenza, anche una produzione artistica potrebbe esserlo, anche la scienza quando riesce a comprendere il mondo perché sia plasmato dalla vita. Il super-uomo è l’uomo che non crede nelle verità, ma le crea, fonda i suoi valori, ma non accetta mai di sottomettersi integralmente ad essi. Tutto in Nietzsche ruota attorno alla vita, così anche i valori e la verità le ruotano attorno. Il super-uomo non conosce altra legge oltre alla sua volontà. Potremmo dire che, se Dio è morto, in vero l’uomo è Dio. Forse però questo non pone bene la questione: non si tratta di uno stato, ma di un divenire. L’uomo è un dado lanciato e il super-uomo è quell’uomo che trascende se stesso. Deleuze sostiene che non si deve pensare il super-uomo semplicemente come un progresso nella specie umana, il che entrerebbe in contraddizione sia con la critica al progresso di Nietzsche, sia con la natura dell’eterno ritorno. Bisogna piuttosto pensare il super-uomo come eterno ritorno, cioè come divenire. Allora correggo la mia affermazione e parlerò d’ora in poi di divenire-Dio dell’uomo. Non si tratta di un concetto nuovo: esso è già stato usato da un filosofo in passato. Infatti di Gustav Landauer, lettore di Nietzsche, Michael Löwy scrive:

Uno dei temi centrali di questa religiosità romantica panteista o atea è quello del divenire-Dio dell’uomo. In uno dei suoi primi scritti pubblicati ‒ un saggio su L’educazione religiosa della gioventù del 1891 ‒ Landauer proclama che il solo Dio a cui si deve credere è “Il Dio che noi vogliamo divenire e che diverremmo” [132]. [133]

È interessante vedere come in Nietzsche il divenire-Dio dell’uomo sia esattamente il divenire-se stessi, come se, dopotutto, fosse quella la nostra vera natura. Il super-uomo è un individuo, ma il divenire è pre-individuale. Ci troviamo di fronte a due dimensioni: l’individuale e il pre-individuale. Questo dualismo dovrà essere tenuto a mente perché costituirà i binari di tutto il restante discorso in questa sezione. Se si segue la strada dell’individuo il divenire-se stessi rimanda all’egoismo; infatti è così che dice di aver scoperto l’egoismo Nietzsche in Ecce homo: è il diventare ciò che si è che lo ha condotto a quella che chiama “arte dell’autoconservazione”, che è l’egoismo stesso [134]. Diventare ciò che si è rappresenta un destino, un essere qualcosa di cui non si sa ancora come sia, un se stesso tutto da scoprire e da raggiungere. Tutto questo passa attraverso l’egoismo, l’autodisciplina e la volontà di potenza. La volontà di potenza non significa né volere la potenza né fare semplicemente ciò si vuole, ma volere un evento all’ennesima potenza e volere ciò che si fa. Si tratta di non desiderare null’altro che se stessi, amare se stessi, essere quindi egoisti nel senso che si ama la propria vita e proprio per questo non c’è nessuna volontà nostra diversa da quella di volere il nostro stesso divenire, che è il divenire ciò che noi siamo. Non importa come vanno le cose nella vita, direbbe Deleuze, l’importante è affermare il caso. La vera felicità in Nietzsche non dipende dagli eventi esterni, è piuttosto un atteggiamento nella vita e una scelta: io voglio essere felice e nessuno può impedirmelo, nemmeno gli eventi più terrificanti dell’esistenza. Parlando di questo tema dell’amore per la vita Nietzsche afferma in Ecce homo su se stesso:

Anche in questo momento io guardo al mio futuro ‒ un vasto futuro! – come a un mare liscio; nessun desiderio lo increspa. Non voglio in nessun modo che qualcosa sia diverso da come è; io stesso non voglio diventare diverso…. [135]

Volere se stessi: questa è una prima forma di egoismo del tutto estranea ai nostri pregiudizi su questo tipo di atteggiamento. Vi sono inoltre altre considerazioni svolte da Nietzsche sul tema dell’egoismo nell’ottica di presentare un egoismo alternativo rispetto a quello condannato da ogni moralista. In Così parlò Zarathustra si trovano due capitoli in cui è trattato l’argomento: Della virtù che dona e Delle tre cose malvagie.

In Della virtù che dona Zarathustra spiega che esistono due forme di egoismo: un egoismo malato e un egoismo sano. L’egoismo malato è quello di chi afferma: “Tutto per me!”, di chi brama ciò che appartiene ad altri, di chi pensa solo a sottrarre per il proprio vantaggio. L’egoismo sano invece dona, esso è la stessa virtù che dona. Si potrebbe dire che ogni uomo dovrebbe cercare la pienezza per sé e la felicità, ma arrivare al punto da averne da regalare, arrivare ad un punto in cui la felicità e la pienezza traboccano tanto che se ne ha da donare agli altri. In Delle tre cose malvagie Nietzsche definisce l’egoismo come salutare, beato, come “l’anima lieta di se stessa”. Rovesciando ogni senso della morale e ogni direzione, come è tipico di Nietzsche, scontrandosi con le morali della rinuncia e affermando un’etica della vita o vitalista, Nietzsche fa dell’egoismo una virtù. Questa virtù in Al di là del bene e del male diventa l’essenza dell’aristocratico:

A rischio di dispiacere a orecchie innocenti, questo è per me un fatto: l’egoismo è compreso nell’essenza dell’anima aristocratica, intendo dire quella fede irremovibile che a esseri “quali noi siamo” altri esseri debbano per natura restare sottomessi e sacrificare se medesimi. [136]

L’egoismo è al di là del bene e del male: non c’è infatti nessun bene e nessun male che per esso si possano dire assoluti, essi variano sempre e continuamente a seconda dei casi. Bene è ciò che accresce la potenza e aumenta la nostra gioia, male è ciò che riduce la potenza e ci rende tristi [137]. Essere egoisti vorrebbe dire perseguire il proprio utile, tuttavia la verità è che seguire il proprio esclusivo utile personale non conviene veramente a nessuno, nemmeno ad un serio egoista che mirasse davvero al suo benessere. Sono prova di questo gli argomenti sulla necessità del contratto sociale [138] e la storia dei trogloditi delle Lettere persiane di Montesquieu [139]. Spinoza stesso nell’Etica afferma che essere virtuosi significa perseguire il proprio utile. Il problema è di nuovo capire cosa ci è davvero utile. Utile è il nostro bene, ma Spinoza usa un metodo preciso per andare oltre l’idea del bene e del male: parla di bene e male in senso relativo, parla di bene maggiore e bene minore, male maggiore e male minore. Il bene e il male non sono assoluti, dipendono dalle circostanze, essi vanno determinati ogni volta da capo. Questo significa che le coordinate dell’etica, cioè il bene e il male, cambiano ogni volta che cambiano le circostanze e cambiamo noi stessi, quindi per determinarle ci vuole una buona arte del giudizio e questa arte in Spinoza deve basarsi necessariamente sull’avere idee adeguate sulla realtà. Se noi conosciamo l’ordine delle cose, l’ordine di cause ed effetti, noi possiamo sapere se da una certa causa deriva un bene o un male, se questo male o bene saranno più o meno cospicui, se si tratta di un piacere immediato che tuttavia comporta mali futuri o se si tratta di un dispiacere nel presente che promette vantaggi futuri.

c) ALLA RICERCA DELL’INFINITAMENTE PICCOLOl

Questo egoismo in etica muove contro ogni morale della rinuncia e si dice “filosofia della gioia”. In questo contesto la dimensione dell’individuale è prevalente e dal punto di vista ontologico si può dire che la dimensione dell’individuale è la dimensione trascendente. Essa sarebbe quella dimensione che in schizoanalisi è definita con il termine “molare”. La cosiddetta “svolta kantiana” di Husserl nelle Idee è da riferirsi ad uno spostamento di attenzione da un piano immanente dell’io empirico ad un piano trascendente dell’io puro. Nelle Ricerche logiche Husserl nega l’esistenza di un qualsivoglia io puro; nelle Idee, al contrario, un altro piano, quello dell’io puro, viene introdotto nella teoria fenomenologica. Dire che trascendenti sono le cose individuali vuol dire anche che l’Ego è trascendente, trascendente rispetto alla coscienza che è immanente. Questa è esattamente la tesi sostenuta da Jean-Paul Sartre: da un lato una coscienza riflettente che intenziona degli oggetti, dall’altro una coscienza riflessa che intenziona la sua stessa intenzione e una coscienza irriflessa come unità delle due precedenti forme di coscienza. Questa coscienza irriflessa è l’Ego trascendente. L’Ego sarebbe trascendente, nelle riflessioni che sto portando avanti, perché è un individuo. Normalmente non pensiamo così: normalmente diciamo che trascendente è Dio o tutto l’universo spirituale. Ora questo nostro modo di esprimerci non è in effetti sbagliato, ma non è nemmeno contraddittorio rispetto a quello che sto adottando. La metafisica ha fatto dell’essere un individuo, parlando dell’Essere come se fosse qualcosa, un ente particolare. Dio ad esempio è stato detto ente sommo, ma pur sempre un individuo. Deleuze stesso afferma che il problema della metafisica consiste nell’aver fatto dell’essere un individuo. Nella metafisica sembra sempre di avere a che fare con una gerarchia di individui [140]. Mi spiego meglio: la concezione del logos di Platone secondo la quale il molteplice viene ricondotto all’Uno ingenera un meccanismo nel quale si danno unità sempre più grandi fino ad arrivare a questo famoso Tutto. Ma il Tutto come unità di ogni cosa appare nuovamente come un individuo, un’identità delle identità.

In Differenza e ripetizione Deleuze spiega dove si trova l’inghippo: il fatto è che esiste una tacita preferenza per l’infinitamente grande a dispetto dell’infinitamente piccolo. Nell’infinitamente grande qualcosa di più grande ingloba qualcosa di più piccolo: l’Italia è una penisola dell’Europa, l’Europa è parte dell’Eurasia, l’Eurasia è un continente di questo pianeta terra, il pianeta terra fa parte di questo sistema solare, questo sistema solare fa parte di una certa galassia, questa galassia di questo universo e questo universo forse di un multi-verso ancora più complesso. Ogni volta tutto sembra rimandare ad unità più elevate fino forse ad arrivare a un ipotetico qualcosa che chiude tutto [141]. L’altro infinito, l’infinitamente piccolo, non è mai stato seriamente preso in considerazione, soprattutto dal punto di vista teologico, proprio perché questo avrebbe significato che anche la creatura, oltre che il creatore, partecipa dell’infinito. Tuttavia questa dimensione ci dischiude un’altra realtà: il pre-individuale, il molecolare, l’abisso, il senza fondo, l’a-peiron?

All’inizio del capitolo “Differenza in sé” del libro Differenza e ripetizione Deleuze distingue due forme di indifferenziato: una forma di indifferenziato è nera, nel senso che è un indifferenziato nel quale non si distingue proprio più nulla: la nera notte o le tenebre eterne; a questa forma di indifferenziato andrebbero collegate espressioni deleuziane come animale astratto o macchina astratta; l’altra forma di indifferenziato è bianca: uno sfondo bianco dove si stagliano singole determinazioni come singolarità che galleggiano sull’abisso.

Abisso in tedesco si dice Abgrund e significa letteralmente senza fondo. Se lanciassimo un sasso in un pozzo, immaginando un pozzo che non ha un fondo, il sasso cadrebbe all’infinito in questo vuoto e questo stesso vuoto sarebbe appunto l’abisso [142]. L’infinitamente piccolo non è altro che un qualcosa che si suddivide all’infinito senza trovare un elemento primo a fondamento, esattamente come nell’Aiôn degli stoici. La differenza che viene riportata alla differenza, quella differenza che si differenzia in sé stessa, sembra essere anche in questo caso qualcosa che si divide all’infinito. Nietzsche ne La nascita della tragedia sembra riconoscere questa dimensione dell’abisso; tuttavia in questa fase l’abisso di Nietzsche è quell’indifferenziato nero, quella notte buia. Nietzsche scopre questa dimensione nel dionisiaco in un periodo della sua esistenza in cui era ancora molto vicino alla filosofia di Schopenahauer. In particolare Nietzsche sembra essere, in tale scritto, anche molto vicino alla filosofia di Anassimandro: credo infatti che esista una comunanza tra il dionisiaco di Nietzsche e l’indeterminato di Anassimandro o a-peiron. La vicinanza a questo filosofo potrebbe essere ulteriormente comprovata dal fatto che la saggezza del satiro, citata da Nietzsche, secondo la quale la cosa migliore per l’uomo è non nascere mai e se si nasce morire il prima possibile, riassume l’idea di giustizia di Anassimandro, che dice: l’uomo che si è separato dal tutto paga il fio della sua colpa con la sua morte tornando di nuovo al tutto.

Secondo Deleuze Nietzsche successivamente supera questa posizione scoprendo la dimensione della singolarità e in questo modo perviene anche alla seconda immagine dell’indifferenziato, in cui qualcosa può ancora essere distinto e singolarità per-individuali galleggiano sull’abisso. La prima dimensione dell’indifferenziato sembra essere l’immagine della Sostanza di Spinoza così come la pensa Hegel, cioè come qualcosa in cui, essendo assente ogni tipo di negazione, proprio perché secondo Spinoza la realtà è perfezione, tutto scompare in un grande Nulla e in un solo Vuoto. La seconda dimensione dell’indifferenziato ricorda la componente produttiva della natura naturante, degli attributi della Sostanza di Spinoza, che produce questa serie di modi che vanno a concatenarsi in una sola serie causale immanente in questo immenso infinito che è la Sostanza stessa, la quale non fa da contenitore, ma sembra sempre essere quel Nulla sullo sfondo. L’animale astratto o la macchina astratta sono lo stesso astratto che passa da un concatenamento ad un altro, da molteplicità a molteplicità, sempre nella linea di una grande deterritorializzazione. Questa dimensione complessivamente può essere identificata con ciò che Gilbert Simondon ha definito come trans-individuale. Lo scritto sull’individuazione di Simondon mette in luce un problema della filosofia passata: si è sempre parlato di principio di individuazione considerando già dati gli stessi individui, ma non si è mai spiegato come funziona questo principio di individuazione. Simondon si fa carico del compito di dare una spiegazione a questo processo, mostrando successivamente come si applica nelle varie scienze. Il bello di concetti come l’individuazione e il virtuale di Deleuze è che rappresentano uno spazio dove tutte le scienze possono trovare una qualche forma di collegamento, anche scienze come le neuroscienze e la fisica quantistica. Simodon crede che il modello classico sull’individuazione sia completamente sbagliato. I filosofi greci pensavano l’individuazione come unione di materia e forma. La forma poteva inerire alla materia con una causa efficiente, come in Aristotele, oppure essere del tutto separata da essa, ma collegata con essa, in quanto la materia partecipa della forma, come in Platone. Forma e materia, in realtà, pensate in questo modo, costituiscono cose distinte e dovrebbero avere due individuazioni distinte. Purtroppo la filosofia ha spesso commesso l’errore di pensare l’individuazione partendo dall’individuo come dato, mentre avrebbe dovuto pensare l’individuo come prodotto. L’individuo è il prodotto di un processo, e questo processo, che in Simondon si chiama individuazione, non è molto diverso dal virtuale di Deleuze. Perché vi sia un processo come l’individuazione, afferma Simondon, vi deve essere un sistema dotato di una certa quantità di energia potenziale. L’individuo si forma con l’attualizzazione e la realizzazione di tutta l’energia potenziale. Simondon parla di energia potenziale come quel fattore che permette di concretizzare delle mutazioni all’interno di un dato sistema. L’energia potenziale, tuttavia, presuppone sempre uno stato di disimmetria: ad esempio c’è energia potenziale nel caso di un corpo che possiede una data quantità di calore, ma non in modo uniforme, ossia ha una parte più fredda e una più calda; c’è disimmetria anche, semplicemente, quando due pendoli non sono sincronici. Simondon definisce l’individuazione anche come sistema metastabile. Il metastabile è quello stato in cui una sostanza presenta diverse condizioni energetiche rispetto al suo stato di equilibrio. È importante capire che per Deleuze infinitamente grande e molare non sono altro che illusioni, in realtà esiste il molecolare. Il molare, il mondo macroscopico, non consiste in altro che in una data organizzazione del microscopico o del molecolare. Il molare è la struttura, ma una struttura in Deleuze funziona in questo modo: consiste in una distribuzione di singolarità; le singolarità entrano in rapporti differenziali le une rispetto alle altre. Il virtuale appartiene al molecolare. Il virtuale funziona in questo modo: il virtuale è neutro rispetto ad ogni opposizione, perciò segue una logica della disgiunzione inclusiva, dunque si parte da una differenza in sé o differenza individuante; il virtuale è abitato da singolarità; in matematica la singolarità è un punto in cui un ente matematico perde determinate proprietà di cui gode in altri punti; quando una singolarità subisce un processo di rottura di simmetria, si ha una “biforcazione”: ad esempio Deleuze afferma che l’arto in biologia è determinato come zampa, ancora prima di esserlo come destra o sinistra, in questo caso si ha una “biforcazione”; è un processo di differenziazione e di strutturazione che fa sì che da un virtuale pre-individuale si formi il singolo individuo, ossia abbiamo un’attualizzazione. In questo modo si comprende come il virtuale sia strettamente collegato al tema dell’individuazione di Simondon.

Simondon studia il fenomeno dell’individuazione in ogni scienza, anche nella fisica quantistica. Nella fisica quantistica il problema dell’individuazione è collocato nell’ambito di ricerca sul rapporto tra l’onda e il corpuscolo. Il corpuscolo è appunto l’individuo fisico, la singolarità. Ci sono varie soluzioni al problema del rapporto: Erwin Schrödinger sostiene che il corpuscolo andrebbe ricondotto all’onda; Heisenberg afferma che l’elettrone può essere visto come onda o particella, ma tutto dipende dall’osservatore, secondo un’immagine bekeleyana della fisica, in base alla quale “esse est percipi“, dal sapore idealista; Louis de Broglie invece pensa il corpuscolo come una singolarità in seno dell’onda, in una teoria considerata invece realista. La teoria di de Broglie è conosciuta come teoria della doppia soluzione. Essa è stata duramente criticata sia da Bohr che da Heisenberg, tuttavia un fisico come David Bohm ha ripreso questa concezione e l’ha ulteriormente sviluppata. È la strada di de Broglie che Simondon decide di percorrere; questa infatti avrebbe il pregio di poter combinare la teoria sui corpuscoli della relatività di Einstein con la meccanica ondulatoria. Così Simondon afferma:

per il realismo, la relazione è sempre scambio energetico che implica un’operazione da parte dell’individuo: struttura e operazione dell’individuo risultano connesse e ogni relazione modifica la struttura così come ogni cambiamento strutturale modifica la relazione, o piuttosto è relazione, poiché ogni cambiamento di struttura dell’individuo modifica il suo livello energetico e implica di conseguenza uno scambio di energia con altri individui costituenti il sistema nel quale l’individuo ha ricevuto la sua genesi. [143]

Il concetto di trans-individuale ha un altro senso: spiega l’individuazione di un collettivo o di un gruppo. È questo il concetto che usa Deleuze quando parla ne L’Anti-Edipo delle masse. La politica degli affetti, dei divenire, è pensabile a partire da questo concetto in quanto consiste in un regno della vita che precede la distinzione uomo/animale e nel quale avvengono comunicazioni di affetti. Questi due filosofi sono alla ricerca della stessa cosa: quell’essere che si dice divenire, tutto il mondo che precede il soggetto e che nello stesso tempo lo rende possibile, la morte impersonale.

Quanto questo si differisce da quello della banalità quotidiana. È il si delle singolarità impersonali e preindividuali, il si dell’evento puro in cui egli muore come piove [il pleut]. Lo splendore del si è quello dell’evento stesso o della quarta persona. È perciò che non vi sono eventi privati e altri collettivi; come non vi è individuale e universale, e non vi sono particolarità e generalità. Tutto è singolare e perciò collettivo e privato a un tempo, particolare e generale, né individuale né universale. [144]

La domanda è il senso dell’essere nella filosofia del primo Heidegger, ma il non essere o il Nulla già si insinuano ovunque a tutti i livelli: la vita inautentica caratterizzata dal man rappresenta un oblio di sé, un abisso per il proprio sé; la morte della vita autentica invece è sempre l’altra possibilità, la possibilità stessa di non essere, quella del Nulla. Deleuze riprende il tema dell’impersonale non cadendo mai nella “banalità del quotidiano”: questo impersonale è infatti la stessa morte, non più come Grande morte della vita autentica ma come insieme di piccole morti impersonali e de-soggettivate di cui la vita si compone. Si muore come piove (il pleut) dice Deleuze, James affermava qualcosa di simile quando asseriva che si pensa come piove (it rains). Una sola dimensione impersonale da William James a Gilles Deleuze, ecco questa nuova realtà: il pre-individuale, l’infinitamente piccolo, il molecolare.

 

Note

[124] Nietzsche, Friedrich, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2008, p. 51.

[125] La figura del diavolo è entrata anche nella filosofia. Walter Benjamin diceva di avere un nome segreto: Angesilaus Satanandauer, un anagramma che significa der Angelus Satanas o l’angelo di Satana. Noi viviamo in un’età del ferro, i Passages di Benjamin non fanno altro che parlare della nostra età del ferro. Il ferro quindi in Benjamin non può essere solo il semplice materiale da costruzione tipico dell’Ottocento, ma deve essere anche un simbolo, oltre che di una società che sembra sempre di più una prigione, dell’era nichilista. Baudelaire è un altro ossessionato dalla figura del diavolo, ed è proprio il protagonista di una parte dei Passages di Benjamin, che lo ritraggono come un uomo interamente calato nel suo tempo, considerando l’impronta che su di esso ha lasciato. Baudelaire ha scritto una poesia, Alchimia del dolore, in cui rappresenta se stesso come un uomo capace di trasformare l’oro in ferro. Ancora una volta sembra tornare il tema del passaggio delle età: dall’oro al ferro.

[126] Si pensi alle chiese bruciate in Norvegia nel 1992.

[127] Antisemita è considerato ad esempio lo scritto Sulla questione ebraica di Karl Marx.

[128] Si notino a questo proposito i diversi rimandi nello scritto di Nietzsche alla Genealogia della morale, dove discute del tema del debito.

[129] È cambiato tutto rispetto al Medioevo, epoca in cui la figura del povero era estetizzata e costituiva un modello di vita: ora il povero indebitato, nel nostro universo neoliberale, è semplicemente un colpevole della sua situazione, come debitore è un criminale: infatti in America si può venire arrestati per debiti.

[130] Nietzsche, Friedrich, Opere complete. L’anticristo (vol. VI***), Adelphi, Milano, 2014, p. 244.

[131] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 256.

[132] Landuaer, Gustav, Die religiöse Jugenderziehung, in «Die Freie Bühne», febbraio 1891.

[133] Löwy, Michael, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 141.

[134] Cfr. Nietzsche, Friedrich, Opere complete. Ecce homo (vol. VI***), Adelphi, Milano, 2014, p. 284.

[135] Nietzsche, Friedrich, Opere complete. Ecce homo (vol. VI***), Adelphi, Milano, 2014, p. 285.

[136] Nietzsche, Friedrich, Opere complete. Al di là del bene del male (vol. VI**), Adelphi, Milano, 2014, p. 210.

[137] O, per dirla con Spinoza, il bene comporta letizia e il male comporta tristizia.

[138] Thomas Hobbes nel Leviatano arriva a dimostrare, rimanendo sempre rigorosamente sulla linea dell’egoismo, che non conviene a nessuno questa guerra di tutti contro tutti generata dal desiderio del possesso di ogni cosa. È la ragione stessa, per motivi di fatto egoistici, che ci spinge a preferire la pace. Spinoza nel Trattato teologico-politico, forse anche seguendo un po’ Hobbes, spiega che i contratti che noi stipuliamo con altri individui partono dai vantaggi che noi possiamo trarre da essi e così anche la pace, il benessere, il prosperare del corpo che ci sono garantiti in una certa società ci sono estremamente utili, perciò preferiamo la pace alla situazione di guerra originaria.

[139] Usbeck, persiano viaggiatore, risponde ad una lettera di Mirza nella quale gli veniva chiesto di spiegare perché secondo lui la felicità proviene dalla virtù. In questa risposta, a differenza di quello che ci si potrebbe aspettare, non ci troviamo di fronte a delle argomentazioni astratte, ma ad una storia: la storia del popolo troglodita. In questa storia prima viene mostrato un esempio di società di individui che perseguono solo il proprio interesse personale, successivamente viene raccontata un’altra storia su una società dove tutti collaborano gli uni con gli altri per il vantaggio comune. Nella prima storia ogni abitante decide di lavorare la propria terra solo per sé medesimo disinteressandosi degli altri. In anni di siccità alcuni uomini che stavano sulle montagne muoiono di fame al contrario di chi viveva in pianura vicino al fiume, mentre in anni di alluvioni accade il contrario. Un uomo un giorno si vede sua moglie rapita da un altro per suo gusto, si appella ad un avvocato per chiedere aiuto, ma non viene ascoltato, quindi rapisce la moglie dell’avvocato. In questa società è subito la guerra tra i cittadini, la malattia dilaga e molti si trovano senza niente. Nell’altra società, dove tutti collaborano per il bene comune, la società prospera, tutti vivono felici e quando i vicini invidiosi vogliono conquistare le loro terre non si trovano di fronte ad un popolo debole e fiacco, ma di fronte ad un popolo che sa cosa è meglio per lui, che tiene alle sue terre ed è disposto a tutto per difenderle. Questi racconti in poche pagine illustrano ciò che è davvero utile a noi stessi.

[140] Individui sono anche l’anima, il mondo e Dio in un certo senso. La totalità dei fenomeni interni, la totalità dei fenomeni esterni, la totalità di tutti i fenomeni se in quanto totalità sono pensati come qualcosa, come enti, sono a loro volta degli individui. Secondo me un libro contemporaneo come Warum es die Welt nicht gibt (Perché non c’è il mondo) di Markus Gabriel dice cose molto interessanti su questo tema. Il problema è il concetto di mondo. Questo problema viene a galla non appena pensiamo che il mondo sia effettivamente un contenitore di tutte le cose, quello che Gabriel chiama Supergegenstand (superoggetto), cioè un ente di ordine superiore. Che natura avrebbe questo ente? O di esso si predica tutto ciò che contiene arrivando alla contraddizione o non si può dire nulla di questo ente. Il paradosso è che questo ente mondo sarebbe inscatolato in altro, sebbene esso pretenda di comprendere ogni cosa, così come mostra Gabriel. Non avrebbe luogo un ente simile e non sarebbe nemmeno pensabile. Gabriel ne deriva che questo mondo non esiste, che esistono tutte le cose ma non il mondo ed ogni cosa ha il suo Gegenstandbereich (settore di oggetti). Anche le streghe esisterebbero, ad esempio, ma solo in certi romanzi, solo in certi settori di oggetti e non nel settore degli oggetti reali chiaramente. Gabriel tuttavia, secondo me, sbaglia a pensare che questa particolare posizione sul mondo come superoggetto sia la stessa adottata da Spinoza: l’idea di Spinoza è diversa. Molto probabilmente esiste un’altra strada e forse proprio questa era quella vera di Spinoza: non negare il mondo, ma pensare il mondo come uno sfondo rispetto alle cose, pensarlo come il vuoto che collega ogni cosa. Un solo processo causale sopravvive a tutti i modi, i quali non sono altro che enti finiti e pure negazioni determinati ad esistere solo per un certo tempo, mentre il processo causale e l’ordine delle cose sarà eterno e il mondo potrà continuare ad essere come puro indeterminato.

[141] Tuttavia, secondo me, questo grande contenitore o unità finale di ogni cosa non esiste affatto. Infatti è incoerente con l’idea di infinito pensare che volgendosi verso sistemi o enti sempre più grandi ci debba essere una fine e quindi una chiusura finale. Forse proprio il fatto di aver pensato che tutto dovesse avere un’ultima chiusura complessiva, nella quale tutto dovesse essere compreso, sta alla base del paradosso che si è ingenerato nella teoria degli insiemi dei Principi della matematica di Bertrand Russell. Russell pensava un insieme di tutti gli insiemi; a livello teologico questo insieme di tutti gli insiemi o questo Tutto potrebbe sembrare Dio stesso. Russell pensa che questo insieme sia un insieme, cioè sia ancora qualcosa che racchiude tutto, ma ciò lascia due possibilità: che l’insieme faccia parte di un insieme di insiemi ad autoingerimento, cioè che comprendono se stessi come proprio elemento, o che faccia parte di un insieme di insiemi non ad autoingerimento, cioè che non comprendono se medesimi come proprio elemento. In entrambi i casi l’insieme degli insiemi diventerebbe paradossalmente insieme di un altro insieme. Questo mostra le contraddizioni che derivano dal pensare che ci debba essere un insieme che racchiuda ogni cosa, la cosa tale che non si possa pensarne una maggiore. Russell per risolvere il problema ha costruito un modello a tipi dove ogni insieme ha un suo livello e non si confonde con i livelli inferiori. Questo tipo di schema non ha risolto il problema e ricorda molto quelle gerarchie metafisiche delle filosofie platoniche, come la gerarchia delle idee, dove l’idea delle idee è di un grado superiore rispetto alle altre. L’impossibilità di pensare qualcosa che contenga ogni cosa, cioè una forma di Tutto o comunque un ente di cui non si può pensare nulla di più grande, secondo me è una prova della morte di Dio. È interessante notare che affermare ciò è l’unico modo coerente per affermare l’infinitamente grande senza contraddirsi pensando che “in alto” c’è un limite massimo o dei massimi confini che racchiudono il tutto. In effetti è difficile pensare Dio in un modo diverso da un ente, perché, se non fosse un ente, non sarebbe proprio nulla. L’ultima strada ancora aperta potrebbe essere quella di pensare Dio come ciò che non è identificabile; questa strada ha un sapore comunque molto paradossale, ma certamente la natura di Dio, se Dio fosse, probabilmente trascenderebbe la logica.

[142] Credo che il trovarsi di fronte a questo tipo di vuoto sia proprio la circostanza che genera quell’esperienza che il nichilista Emil Cioran ha denominato vertigine.

[143] Simondon, Gilbert, L’individuazione. Alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano, 2011, p. 196.

[144] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 136.

 

Articolo seguente: Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (32)

 

 


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