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La politica come professione: cenni sulla conferenza weberiana del gennaio 1919

La politica come professione: cenni sulla conferenza weberiana del gennaio 1919

Feb 23

Oggi pubblichiamo il primo articolo di Giovanna Corsale, laureata in filosofia presso l’Università di Napoli Federico II con una tesi sulle riflessioni di Max Weber inerenti al problema dell’emanatismo nelle scienze storico-sociali. Giovanna inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog occupandosi di: M. Weber, La scienza come professione. La scienza come professione, Introduzione di Wolfgang Schluchter, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004. Ringraziandola per il contributo, le diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

La politica come professione è il titolo di una conferenza che, assieme a La scienza come professione, Max Weber realizza nei suoi ultimi anni di vita. In questa fase, è fondamentale, per Weber, cercare di risolvere i principali dilemmi della civiltà moderna. È d’uopo sottolineare che l’obiettivo prestabilito dall’autore è, in entrambi gli scritti, di tipo educativo, ossia quello di guidare l’individuo verso una proficua conoscenza dei fatti e di se stesso, maturando una concezione della vita che implica l’assunzione di responsabilità.

Mi voglio soffermare sul secondo dei due discorsi, cronologicamente parlando, cioè La politica come professione, composto nel gennaio 1919.

Il termine politica esprime un concetto molto ampio, poiché indica ogni tipo di attività direttiva autonoma; pertanto, Weber circoscrive il suo campo d’indagine all’influenza esercitata sull’agire di uno stato, nel senso moderno della parola. Il significato sociologico dello “stato” risale a quella che costituisce la prerogativa principale di esso, cioè l’uso della forza fisica. Se, pertanto, secondo l’accezione moderna, lo stato è una comunità di persone che pretendono il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica, allora la “politica” rappresenta l’aspirazione da parte di tutti a prendere parte a tale esercizio di potere. Weber individua tre forme di potere, sulle quali costruisce la teoria dei “tipi puri”. Il primo è costituito dal potere esercitato dai costumi, il cosiddetto “eterno ieri”, complesso di comportamenti che, tramandati nel succedersi delle generazioni, si sono consolidati sotto forma di consuetudini da osservare (è il caso del potere detenuto dal “patriarca”, per fare un esempio); la seconda tipologia di potere è quella che si origina dal “dono di grazia”, il carisma, il quale fa capo alla forza straordinaria riconosciuta al profeta, per esempio. Infine, esiste una forma di potere che si concretizza nel rispetto della legalità, ossia nell’obbedienza a determinate regole, a cui conformare le proprie azioni (questo è il caso del servitore dello stato.. Weber si sofferma sulla seconda accezione, il potere carismatico del capo, perché è proprio da esso che trae origine il concetto di “professione” nel contesto politico.

Un profeta, un mago, un condottiero oppure, per riferirci a due figure tipiche dell’Occidente, il demagogo e il capopartito parlamentare, agiscono per intima vocazione, in virtù della quale si adoperano per la loro “causa” ed hanno al loro seguito un gruppi di individui che credono in loro.

Ogni forma di potere ha bisogno di un “apparato amministrativo” e dei “mezzi” materiali che sono indispensabili per l’esercizio della forza fisica. Tuttavia, il complesso di individui, al quale chi detiene il potere si affida, può sia possedere direttamente dei mezzi amministrativi, sia esserne dissociato. Questo rappresenta un punto cruciale del discorso weberiano, poiché sulla “espropriazione” degli uomini che affiancano il sovrano nella gestione del potere si fonda, appunto, la nascita dello “stato moderno”: ci troviamo in concomitanza con l’affermazione del sistema “capitalistico”, che ha determinato una graduale “alienazione” dei produttori indipendenti. Si legge, tra le righe, un rimando alla riflessione di Marx, al quale Weber si è, sicuramente, ispirato.

In seno alla definizione del “politico di professione”, Weber distingue chi “vive per la politica” da chi, invece, “vive di politica”. Siamo giunti, con tale definizione concettuale, secondo me, al nucleo della conferenza weberiana, in quanto appare chiara, adesso, l’essenza dell’agire politico. Si vive “di” politica quando si cerca di trarre da essa un guadagno, più o meno consistente; al contrario, quando si vive “per” la politica, non viene perseguito nessun secondo fine, né alcun tornaconto economico, essendo la politica la ragione d’essere della propria esistenza. Quest’ultima condizione, definita da Weber di “idealismo politico”, è attribuibile solo a quelle realtà sociali le quali non hanno alcun interesse a conservare il loro assetto economico ed amministrativo e ciò si verifica esclusivamente in epoche eccezionali e “rivoluzionarie”.

Per Approfondire

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