[Incipit] Philía e inizio (2)
[Incipit] Philía e inizio (2)
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2. Relazione di appartenenza non identitaria
Il significato arcaico della parola philía, che deriva a sua volta da phílos (di cui risulta essere il femminile, poi sostantivato [1]) non era caricato di quel valore sentimentale e affettivo che la parola “amicizia” oggi ci evoca.
Phílos, prima ancora che “amico”, significava innanzitutto il possessivo “mio”: l’amicizia o, per meglio dire, la relazione di prossimità affettiva, deriva in origine da un possesso già acquisito o rivendicato come proprio. I personaggi omerici qualificavano come phílos le proprie parti del corpo: le mie ginocchia, le mie mani, i miei occhi. Si tratta di una qualificazione del possesso di qualcosa di estremamente vicino, di qualcosa che già mi appartiene come “mio”. Da qui deriva il secondo senso antico della parola: “caro”. Come ha scritto Fraisse, autore di una fondamentale monografia sul tema dell’amicizia nell’antichità [2], per Omero
è phílos ciò che non può essere separato da me senza che io cessi di esistere o anche senza che io possa continuare a condurre quell’esistenza che è la mia ragion d’essere.
Con il significato di questa parola si intende dunque qualcosa di esistenzialmente indispensabile.
All’allargarsi della sfera del possesso si allarga anche la sfera del significato del possessivo: dal materiale al relazionale. La radice phil-, quindi, prima ancora che l’amicizia o una generica affinità sentimentale, esprimeva innanzitutto e più basilarmente l’appartenenza ad un gruppo sociale. La nozione di phílos è infatti legata sia a quella di consanguineo (sungenés) sia a quella di compagno (hétairos, anche nel senso di compagno d’armi) e va via via ricoprendo quei rapporti di prossimità che prevedono intimità familiare o comunque una vita in comune [3].
Il linguista Émile Benveniste dedicò uno studio molto circostanziato al problema di come spiegare tutti questi significati [4]. Egli, allargando evidentemente il campo di indagine, indicò così la via di ricerca:
Bisognerà partire dagli usi e dai contesti che rivelano in questo termine una rete complessa di associazioni, sia con le istituzioni di ospitalità che con gli usi nell’ambito del focolare domestico, sia ancora con i comportamenti affettivi, per capire fino in fondo le trasposizioni metaforiche a cui l’attribuzione poteva prestarsi. Tutta questa ricchezza concettuale è stata sepolta e sfugge al nostro sguardo se riduciamo phílos a una vaga nozione di amicizia o a una falsa nozione di aggettivo possessivo… [5].
In particolare egli si interrogò su come poter giustificare la connessione linguistica tra termini che indicano l’amicizia e termini che indicano il possesso e l’appartenenza. La spiegazione fu che, con parole nostre, possesso e appartenenza furono la causa dell’essere phílos, non viceversa. Oggi diremmo di più: l’essere phílos dipende originariamente dalla necessità relazionale in cui già ci si trova alla nascita (dalla condizione biologico-sociale umana [6]) e solo secondariamente dalla personale inclinazione o bontà d’animo sviluppata nei primi anni di vita nel proprio ambiente di crescita.
Se di amicizia dunque si vuole parlare, allora bisogna parlare prima di proprietà e degli impegni sociali in essa originariamente implicati. Il senso positivo di phílos, qualunque esso dovette essere, è un senso dipendente da quello di una relazione (non necessariamente positiva) di possesso e di appartenenza sociale.
Il possesso e l’appartenenza sono i due versi di una stessa relazione: il possesso che un soggetto ha di un suo phílos (o gruppo di phíloi) e, reciprocamente, l’appartenenza a cui si presta quel soggetto nei riguardi di un phílos (o gruppo di phíloi). – Insita nella relazione di philía c’è la reciprocità della relazione stessa, una reciprocità che non riduce le parti coinvolte l’una all’altra.
Familiari, parenti, domestici, alleati, “amici” condividono tutti un legame di philía. Tra costoro, proprio in quanto phíloi, vigeva una serie non scritta di obblighi, prescrizioni e consuetudini volte a tutelare proprio la reciprocità del rapporto. Due campi di applicazione privilegiati ce ne danno la prova: l’ospitalità sacra (ξενία) e il senso dell’onore reverenziale (αἰδώς).
Per quanto riguarda il primo campo, l’aggettivo phílos si applicava indifferentemente all’una o all’altra parte delle due persone coinvolte nei legami di ospitalità: l’ospite che accoglie è il phílos dello straniero accolto e viceversa. In origine l’aggettivo poteva avere un senso passivo, cioè come appellativo di benevolenza (“caro”, “mio buon”), o un senso più attivo dove però appunto il valore affettivo che veniva indicato era conseguenza di una prossimità o vicinanza relazionale, positiva e non ostile. In Omero assumeva sostanzialmente il ruolo di aggettivo possessivo, con sfumature di tutela, protezione e custodia. L’aggettivo phílios si trova in alcune delle collocazioni più antiche, al maschile, come epiteto di Zeus, “dio dell’amicizia” e quindi dell’ospitalità (Zeus Xénios, dio degli stranieri perché lui stesso spesso sotto spoglie di visitatore straniero) e al femminile, come attributo di ghê, terra, ad indicare quindi il “paese amico” o la “terra natale” dove ci si deve sentire a casa. Torneremo sull’origine di queste collocazioni, per ora sia sufficiente ribadire come l’accoglienza fosse un obbligo morale e religioso, e che quindi gli ospiti erano vincolati al reciproco dovere di essere phíloi.
Per quanto riguarda il secondo punto, si è notato in Omero una frequente ricorrenza dell’abbinamento tra phílos e aidós. Quest’ultima è una nozione molto complessa, che implica il rispetto e la vergogna e che abbiamo qui tradotto con la perifrasi “senso dell’onore reverenziale“. Si dicevano phíloi coloro che condividevano questo comune senso dell’onore, dall’evidente retaggio tribale e guerriero, e che evidentemente si riconoscevano nel rispetto del comune codice di deferenza. Anche in questo caso il rapporto è assolutamente reciproco e trova luogo in una collettività sociale. Anche in questo caso tale relazione di philía esercita un rapporto di forza e di resistenza nel vincolo che il legame sociale esclusivo ed escludente instaura.
Phílos è colui che si trova in una relazione di appartenenza non identitaria e da ciò origina il suo sotteso stato di tensione e di emulazione, di partecipazione e di confronto, il suo anelito di riconoscimento. A livello teoretico, phílos è al tempo stesso irriducibile diversità dall’Altro e coinvolgimento essenziale con l’Altro: in questa tensione si può giocare il suo spazio e la sua storia. Del resto non è mai esistita una ‘philía’ simpliciter, ma, in quanto relazione, essa è sempre circostanziata, contingente e, pertanto, unica.
Note:
[1] Per alcune delle considerazioni che seguono, si veda P. Chantraine, Études sur vocabulaire grec, Klincksieck, Paris, 1956, p. 15; poi Id., Dictionnaire étymologique de la langue grecque, nouvelle édition mise à jour, Paris, Klincksieck, 1999, pg. 1205, s.v. Φίλος.
[2] J.-C. Fraisse, Philia. La notion d’amitié dans la philosophie antique, Vrin, Paris, 1974, p. 41.
[3] F. Dirlmeier, ΦΙΛΟΣ und ΦΙΛΙΑ im vorhellenistischen Griechentum, [Diss.], München, 1931, p. 7. (cit. da Fraisse, p. 40).
[4] É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, I, Minuit, Paris, 1969, pp. 339-358. Ed. italiana a c. di M. Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. 1, Einaudi, Torino, 1981, in particolare Cap. IV, «phílos», pp. 257-271.
[5] Ibid., p. 271.
[6] Cfr. J.N.L. Brent – W.C. S. Chang – J.F. Gariépy – M. L. Platt, «The Neuroethology of Friendship», in Annals of the New York Academy of Sciences, 2013.
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