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[Incipit] Il motivo dell’origine: questioni di metodo (9)

[Incipit] Il motivo dell’origine: questioni di metodo (9)

Ott 12

 
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9. Essenza come provenienza e provenienza come origine in atto

Aristotele indicava l’essenza come ciò che dice il «che cos’è» (τὸ τί ἐστι) di una certa sostanza (οὐσία), la quale è primariamente e innanzitutto sostanza individuale (τόδε τι, letteralmente: “un certo questo”), espresso attraverso la sua definizione specifica (ὁρισμός). I latini tradussero con ‘essentia‘, ‘quidditas‘ o ‘haecceitas‘ questo termine, nucleo indivisibile e attuale della sostanza, ma il greco di Aristotele faceva ricorso ad una delle perifrasi più concise e al tempo stesso più complesse della filosofia antica: essenza era detta essere «τὸ τί ἦν εἶναι», letteralmente «ciò che era essere».

Che cosa significa che l’essenza era ciò che era essere e, soprattutto per quel che qui concerne, che cosa significa che l’essenza “che era essere” è uno dei modi fondamentali dell’origine?

Le essenze (al plurale) sono le unità-base, identificative e non ulteriormente riducibili, delle realtà che ci circondano. Massimo Cacciari ha recentemente dedicato delle pagine ostiche, ma molto originali, a questo tema. Giustamente egli ha ricordato che l’essenza, per come intesa da Aristotele, è il «di per sé semplicissimo», vale a dire ciò che si predica di sé soltanto, in modo autosussistente, «senza implicare il riferimento di una cosa a un’altra» [7]; essenza è il «realissimum» [8] e, nella propria inscindibile semplicità, presente «in quanto tale» [9]. Essa costituisce «l’assoluta ipseità dell’ente stesso» [10], dove rimane traccia della sua connaturalità alla «phýsis» [11] cui appartiene, del suo essere singolarità, per così dire, entro un ecosistema ontologico. Altrettanto giustamente, l’essenza aristotelica viene messa in relazione con il suo essere causa formale, «perché è evidente che chiedendo che cosa l’ente sia noi cerchiamo essenzialmente la sua causa (Metaph., Z 4, 1041a 27). ‘Tò tí ên eînai‘ si declina così nel concetto di causa, e la causa prima (l’εἶδος), sarà la forma che determina o segna la materia» [12].

Possiamo poi leggere tre importanti considerazioni ulteriori: (1) l’essenza non è mai sovrasostanziale o metasostanziale: «’Tò tí ên eînai’ non è nulla di hyperousíon», vale a dire che l’essere più autentico di un ente non è niente che superi o trascenda l’ente stesso, ma è la sua propria struttura fondamentale. (2) L’essenza non viene còlta per via intuitiva, ma è sempre l’esito di un processo di analisi e ricerca dialettico-scientifica: «Nessuna improvvisa illuminazione; a questo esito [la comprensione delle essenze] perviene soltanto la méthodos della scienza stessa» [13], cioè il percorso induttivo-dimostrativo. (3) Infine si sottolinea l’importanza processuale del carattere di ogni essenza (e dell’origine che essa costituisce), insito nell’espressione «ciò che era essere»:

L’ente non è solo estí [ciò che ‘è’, al presente], non è sola presenza. L’ente ‘era’ ciò che in questa presenza si cela, era la causa che l’ha reso questa cosa nella sua propria singolarità, ciò che l’ha generato in questa forma individua. E possiamo risalire a tale origine solo imperfettamente [ciò che ‘era’, appunto, all’imperfetto]. Non potremo mai, cioè, fare presente l’essenza, ridurla al presente perfetto del theoreîn. Nessun ente ha una sola causa. Essa è indicabile perciò solo all’imperfetto. L’essente, indicato secondo il ‘tò tí ên eînai’, era, nella sua causa, precedentemente a ogni predicazione, a ogni lógos. Ipsum ens erat, ‘prima’ di apparirci come quella ousía che il discorso può determinare. Meraviglia e sgomento che accompagnano sempre il pensare e sempre lo ‘spaesano’ dalla sua naturale tendenza a ritenere l’ente perfettamente legómenon e a ridurlo al presente dell’atto che lo predica. Ma l’imperfetto, ên, non toglie affatto il presente, il participio presente, tò ón, che indica il movimento qui-e-ora dell’essente nel suo essere tutto-composto e nel suo partecipare al tutto. Imperfetta è la stessa presenza. Il tempo presente della relazione ousía-legómenon ha in sé l’imperfetto che fa segno all’immemorabile phýsis dell’essente, così come l’ên, l’era, non si comprende che nel cuore della presenza, sostandovi, attraverso l’epistéme che ne determina gli elementi e le forme. [14]

L’analisi qui è originale, ma non è del tutto corretta. È interessante la problematizzazione dell’imperfetto (perché infatti Aristotele avrebbe utilizzato proprio questo tempo (‘era’) per indicare ciò che c’è di più fondamentale nella sostanza?), ma dal punto di vista aristotelico infatti ci sono delle forzature in questa lettura, che necessitano di alcune correzioni. Sembrerebbe che l’origine detta dall’essenza sia destinata a rimanere inaccessibile – almeno secondo il commento soprariportato – ma non è così. Innanzitutto, (1) per Aristotele l’essenza è sempre compiuta (τέλειον), dunque perfetta, non imperfetta; la sua presenza, se davvero si tratta di essenza, è sempre “in atto” negli individui e mai parziale; poi (2) l’essenza, per Aristotele, non è mai ineffabile, indicibile o costitutivamente “inaccessibile al lógos“, ma semmai, avendo una struttura proposizionale come la definizione che la esprime [15], è anzi comunicabile, comprensibile e coglibile per via di ricerca dialettica. Infine (3) l’imperfetto della definizione che Aristotele dà di essenza («ciò che era essere») può essere spiegato in altro modo, io credo, che facendo riferimento all’imperfezione e alla parzialità della nostra comprensione di essa.

Innanzitutto bisogna dire che Aristotele riteneva che le essenze fossero perfettamente conoscibili, altrimenti non si sarebbe impegnato ed esercitato così tanto, fin dagli anni dell’Accademia, nel rispondere al “che cos’è” delle cose, distinguendone i sensi e gli attributi propri. Sono d’accordo poi nel riconoscere che l’imperfetto dice di un “movimento”, ma questo movimento non è quello dell’irreversibile “Caduta dall’Essere”, della differenza ontologica fondamentale, che ci precluderebbe ogni comprensione esaustiva dell’essenza. L’imperfetto di «ciò che era essere» dice un “movimento” che è quello teleologico del processo di generazione, che dalla potenza va alla piena attualità, e che porta quindi ad essere un ente per ciò che è e dev’essere come previsto dal suo corredo interno di sviluppo e compimento. In questo senso possono essere intese anche le parole di Heidegger che abbiamo prima riportato: «L’origine di qualcosa è la provenienza della sua essenza». Non solo l’origine-essenza non è inaccessibile, ma anzi, proprio in quanto provenienza che si è fatta presenza, essa è alla portata del ricercatore che intenda indagarla.

Pertanto, l’essenza intesa come «ciò che era essere» può dire certamente dell’origine degli enti, ma la può dire retrospettivamente, cioè in considerazione del fatto che essa, una volta compiuta, è sempre un “risultato” che viene-ad-essere “in atto” nelle individualità tramite un antecedente processo di generazione, che, a propria volta, può e dev’essere ripercorso e compreso. Ripercorrimento e comprensione sono precisamente i nuclei dei metodi filosofici che Natoli recupera come “genealogia” ed “ermeneutica”, e ai quali dobbiamo ora ritornare [16].
 

Note

[7] M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano, 2014, p. 36.

[8] Ibid., p. 39.

[9] Ibid., p. 41.

[10] Ibid., p. 42.

[11] Ibid., pp. 41 e 46.

[12] Ibid., p. 39.

[13] Ibid., pp. 44-45.

[14] Ibid., pp. 42-43.

[15] «Si dà essenza soltanto di quelle cose il cui logos è una definizione» (Aristot., Metaph., Z 4, 1030a6).

[16] «D’altronde, non ci sono che due domande filosofiche fondamentali: «perché?», ossia la domanda sul senso, sul significato, e «che cos’è?», ossia la domanda sulla costituzione, sull’essenza; una domanda guarda indietro mirando al presente, cercando l’origine di quanto si interroga, l’altra guarda avanti mirando al presente, cercando di aprire lo spazio per il manifestarsi di quanto si interroga» (G. Pezzano, Uomo, apertura e comunità a partire da Roberto Esposito, Tesi di laurea, apud https:// www.academia.edu/ 7275975/Uomo_apertura_e_comunit% C3%A0_a_partire_da _Roberto_Esposito, p. 49. – Secondo Natoli (e le tradizioni alle quali egli afferisce) ermeneutica e genealogia, come vedremo, sono metodi che possono dare risposta, rispettivamente, a questi interrogativi.
 
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