[Incipit] Il motivo dell’origine: questioni di metodo (13)
[Incipit] Il motivo dell’origine: questioni di metodo (13)
Gen 22
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13. Un’analitica dell’inizio?
A questo punto possiamo fare forse un passo ulteriore rispetto al metodo, comunque condivisibile, fin qui abbozzato. Torniamo per un momento ad Aristotele e alla sua ricostruzione dell’acquisizione progressiva della sapienza, della ricerca delle quattro cause e dell’origine della filosofia nello stato di meraviglia. Domandiamoci: il filosofo adottò mai questo metodo genealogico-ermeneutico nella sua “storia dell’inizio”? Più che nel primo libro della Metafisica, che abbiamo escluso essere “genealogia” ma affermazione critica di un proprio primato filosofico, si potrebbe esser portati a pensare allora che il filosofo se ne fosse occupato in un’opera dell’Organon considerata più metodologica, vale a dire il suo Perì hermenéias o – come recita il titolo latino – De interpretatione, e si potrebbe pensarlo magari proprio in virtù di alcune istanze interpretative del fatto linguistico lì sviluppate.
Ma l’ermeneutica moderna ha spesso disdegnato questo trattato perché, a dispetto del titolo che la tradizione ci ha lasciato – scrive ad esempio Gadamer –
il “Perì hermenéias” aristotelico […] non è affatto un’ermeneutica, bensì una parte della grammatica logica, che si occupa del logos apofantico (dell’enunciato predicativo), e di tutte quelle altre parti del logos in cui non è ancora in questione la verità. [33]
In questo modo Gadamer fu portato a rendere un titolo apparentemente dedicato all’ermeneutica (hermenéia), come dedicato semmai all’espressione, più che a questioni di interpretazione e verità. In realtà, però, per Aristotele il logos apofantico o giudizio predicativo è la formula enunciativa, la quale soltanto, rispetto ad altre espressioni linguistiche, è passibile di dirsi inequivocabilmente o vera o falsa. Certo, è indubbio che il De Interpretatione non sia un’ermeneutica nel senso moderno del termine, ma perché allora non pensare piuttosto che tale procedura non fosse un’ermeneutica nel senso in cui Aristotele (autore di quel titolo) l’avrebbe intesa essere, cioè appunto come “grammatica logica” degli enunciati? In altre parole, perché “ermeneutica” dovrebbe essere considerato (soltanto) quel metodo che è venuto a consolidarsi con gli studi di Gadamer, e non (anche) al modo in cui lo intese originariamente Aristotele fin dal suo titolo, vale a dire quale metodo di analisi delle condizioni di verità degli enunciati? Che cosa ci sarebbe allora di sconveniente nello sviluppare un’ermeneutica analitica [34] e in particolare un’ermeneutica analitica dell’inizio?
L’ermeneutica analitica è quel tipo di ricerca che ha come fine la delineazione di una sorta di “tavola degli elementi”: uno studio preliminare e inaggirabile, come preliminare e inaggirabile dovrebbe essere lo studio dell’inizio. È possibile infatti pensare un’ermeneutica più rigorosa, concentrata sulle condizioni di possibilità del linguaggio e sulle sue attestazioni specifiche nelle sue unità. Rispetto all’ermeneutica tradizionale, infatti, si avverte l’esigenza di evitare quattro rischi metodologici: (1) il problema del soggettivismo, per il quale tutto non solo è interpretabile, ma è soggettivamente interpretabile, fino al pericolo del relativismo assoluto; (2) il problema della pre-comprensione ermeneutica (Vorverständnis), che per certi versi ricorda un po’ il paradosso di Menone (come posso pretendere di sapere qualcosa che non so affatto, né so di non sapere?), per il quale è necessario già trovarsi immersi nel flusso di un linguaggio di senso (la tradizione, la comunità, l’esperienza) per poter attribuire significati, ma che può lasciare spazio ad ampi margini di arbitrarietà dei presupposti o anche, in caso di assenza, di totale impossibilità di comprensione (se è necessario essere in uno stato di pre-comprensione per poter comprendere, allora, in assenza di pre-comprensione, come posso comprendere?); (3) il problema della ricorsività, per il quale il circolo ermeneutico rischia di essere un circolo chiuso, senza una soglia di accesso, o, qualora ci si trovi già all’interno, presenti un ripetersi e un reiterarsi di già avvenute comprensioni, sempre uguali a sé stesse, che non consentono un avanzamento della conoscenza, un trasformarsi del circolo in spirale; infine (4) il processo interpretativo è un processo aperto e potenzialmente infinito: quando può dirsi concluso? Dove può trovare il suo punto di arrivo? Umberto Eco sostiene che i limiti dell’interpretazione sono sostanzialmente il testo e i suoi lettori [35], ma sono questi dei punti fermi sufficientemente universali, paragonabili alle cause e ai princìpi primi che dicevamo, con Aristotele, essere l’obiettivo della ricerca filosofica del fondamento?
La genealogia, poi, è un metodo sufficientemente analitico da poter consentire di arrivare al fondo dei problemi? Per Natoli l’analitica dovrebbe essere una parte della genealogia, rispetto alla quale quest’ultima è già una sintesi, una visione d’insieme. Ma una visione d’insieme dinamica, quale appunto la genealogia, non rischia di “perdere pezzi” o dettagli chiave per la propria comprensione qualora non faccia dello studio esaustivo delle parti il suo fine iniziale? Anche la genealogia, tradizionalmente concepita, presenta perciò qualche problema: (1) il carattere dinamico, diacronico, trasversale del suo procedere finisce col rendere l’oggetto stesso del suo studio dinamico, diacronico e trasversale. La genealogia fatica a studiare il «che cos’è» del proprio oggetto in assoluto e, per così dire, “a bocce ferme”, proprio perché il movimento delle idee e dei rapporti di potere è il suo peculiare interesse; (2) così anche il soggetto genealogista si accorge di essere egli stesso in movimento, immerso nel flusso di una storia che è sempre la versione “del più forte” e dalla quale è egli stesso inevitabilmente condizionato, ed è pertanto portato a pensare la ricerca di un principio assoluto (Ursprung) e la sua obiettività metastorica come una chimera irraggiungibile; infine (3) la genealogia opera per il disvelamento di polarità, rapporti di forza o di potere subalterni, stati di conflitto latente, tensioni e dialettiche soverchianti tra i vincitori e i vinti degli eventi, ma non sempre riesce a mettere a fuoco, a mio avviso, la singolarità del polo problematico elementare e la sua definitezza.
Per “analitica”, Aristotele intendeva la tecnica dell’análysis o “distinzione”, vale a dire il metodo attraverso il quale si divide un certo dominio o campo di sapere nelle sue parti più semplici (Eth.Nic. III 3, 1112b 20-24), in considerazione del fatto che l’insieme della conoscenza comporta la conoscenza anche delle parti più semplici di tale intero (Phys. I 1, 184a 9-14; Metaph. H 1, 1042a 5-6), ove la comprensione degli elementi, intesi come parti indivisibili del reale (adiáireta; asýnteta), è la conoscenza in quanto tale più infallibile possibile, perché basata sull’individuazione delle unità-base non ulteriormente scomponibili, le quali, qualora correttamente colte, rimangono nel tempo le acquisizioni più invarianti e quindi “più vere” che ci siano (Metaph. Θ 10, 1051b 17 – 1052a 4; De An. III 6 430a 26 – 430b 30). È discusso che cosa Aristotele intendesse per parti elementari e indivisibili; alcune delle possibilità le abbiamo qui menzionate (essenze, cause e principi primi) e altre ancora si potrebbero menzionare (definizioni, assiomi e postulati). In generale possiamo dire che tali unità-base sono sia il massimamente concreto (ciò che non è ulteriormente scomponibile), sia ciò che, per il suo essere massimamente concreto, è il massimamente universale (ciò oltre al quale niente può essere dimostrato, perché è ciò a partire da cui si dimostra). In senso ancor più tecnico, Aristotele intendeva poi con análysis la procedura di risoluzione (o, letteralmente, di “riconduzione”) per la quale era possibile riportare le argomentazioni dialettiche a modelli di ragionamento più rigorosi e fondati (cfr. ad es. An.Pr., 51a 18). Anche in questo caso, potremmo dire, il rimando è sempre in riferimento a qualche struttura più elementare e fondante, che mantiene la pretesa dell’oggettività.
Forse, allora, recuperare questa caratterizzazione analitica di “distinzione elementare” e “riconduzione fondante“, accanto a genealogia ed ermeneutica, potrebbe rivelarsi essere di valido ausilio nello studio filosofico dell’idea di inizio.
Note:
[33] H.G. Gadamer, «Hermeneutik», in J. Ritter (a c. di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. III, Scwabe & Co., Basel-Stuttgart, 1974, pp. 1061-73, in particolare p. 1062; cit. trad. in M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 2008.
[34] «C’è un punto d’incontro imprescindibile tra filosofia analitica ed ermeneutica, ed è il linguaggio. Se pur con prospettive diverse, il linguaggio è centrale in entrambi gli stili e da qui può a maggior ragione svilupparsi l’incontro, poiché reputo che sia possibile avviare una nuova prospettiva filosofica dalla definitiva fusione di questi stili circa questo problema… Questa idea non ha la pretesa di essere una vis nova per la filosofia, ma soltanto un contributo che potrebbe aprire nuove riflessioni, e risolvere alcuni problemi di incompatibilità tra le due filosofie, che devono necessariamente incontrarsi sul problema linguistico ed interpretativo, che sia elaborato partendo da un presupposto che incentra il focus sul senso in ambito interpretativo (ermeneutica) o significativo (filosofia analitica). Il punto d’incontro è possibile» (F. Lusito, Ermeneutica e filosofia analitica: prospettive sulla possibilità di un incontro, apud https://www.academia.edu/2926757/Ermeneutica_e_filosofia_analitica_ prospettive_sulla_possibilit%C3%A0 _di_un_incontro [26/06/2015]).
[35] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
Testo di riferimento:
S. Natoli, Il linguaggio della verità. Logica ermeneutica, Morcelliana, Brescia 2014, in particolare: Cap. 1 «Il motivo dell’origine».