Temi e protagonisti della filosofia

La logica stoica. VI. Teoria del giudizio

La logica stoica. VI. Teoria del giudizio

Gen 19

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Potrei ma non voglio fidarmi di te

io non ti conosco e in fondo non c’è

in quello che dici qualcosa che pensi

sei solo la copia di mille riassunti

S. Bersani (Spartito Aristocratico), Giudizi universali

La dialettica per gli stoici è la scienza delle rappresentazioni, dei predicati (verbi) attivi e passivi, degli esprimibili in generale, degli esprimibili ellittici, degli esprimibili completi, di ciò che è vero e di ciò che è falso (giudizi), di ciò che non è né vero né falso (sofismi e paradossi dal valore di verità indecidibile) e dei sillogismi (ragionamenti). Essa riguarda la discussione coerente nelle argomentazioni per domanda e risposta. Poiché nel discutere (dialegein) si veicolano concetti, cioè significati, tramite parole, cioè significanti, Crisippo definisce la dialettica “scienza dei significanti e dei significati”. Una sua parte tratta dunque delle forme del linguaggio (teoria grammaticale delle voci), l’altra di quelle del pensiero.

In sede di grammatica, gli stoici determinano i vari casi della declinazione. Le parti del discorso da essi distinte sono: nome proprio, nome comune, verbo, congiunzione e articolo. Nella loro analisi del linguaggio includono però anche la trattazione della definizione, del genere e della specie, svalutando quindi, a differenza di Aristotele, il versante logico di questi temi a tutto vantaggio di quello linguistico. La prima Techne grammatike fu redatta, in simbiosi colla fervente ricerca filologica della Biblioteca di Alessandria, da Dionisio Trace.

Siamo ora finalmente giunti alla dialettica in senso proprio. I significati o esprimibili ellittici, cioè incompleti, sono i predicati presi di per sé soli (per esempio “corre”, che non risponde alla domanda su chi corra). Esprimibili completi sono i giudizi o proposizioni (aviomata, per esempio “Dione corre” o “costui corre”), che connettono gli ellittici ad un soggetto, configurando così un senso compiuto e un significato determinato.

Come per Aristotele, infatti, alla proposizione in quanto significato esprimibile completo può essere assegnato un valore di verità, vero o falso: il giudizio è definito “ciò che, espresso in parole (enunciato), diviene un’asserzione di ciò che è vero o falso”. Solo in tal modo l’evento incorporeo universale espresso dal predicato può essere ancorato a un individuo corporeo (i giudizi singolari o individuali sono ovviamente preferiti a quelli universali), il che permette il controllo tramite la sensazione, la quale verifica o falsifica la proposizione confrontandola con uno stato di cose: si fissa, per così dire, la volatilità dell’incorporeo.

Ma l’ormai ben noto tiramolla tra raffinatezza argomentativa e rozzezza di ritorno per non tradire l’ontologia materialista continua, risolvendosi in una delle tante trovate terminologiche che dislocano il problema senza risolverlo: verità e vero differirebbero, oltre che per la struttura e le conseguenze pratiche, anche per la sostanza giacché la verità sarebbe corporea, il vero incorporeo. Questo infatti è un enunciato, che a sua volta è un esprimibile, ossia un incorporeo. La verità invece è la scienza che esprime tutte le verità, ma ogni scienza è una certa disposizione dell’egemonico, che è un corpo, come il pugno è una disposizione della mano: quanto al genere la verità è corpo tanto quanto il pugno. Ma se la scienza è la raccolta di tutte le proposizioni vere, che sono incorporee, come può qualcosa di corporeo risultare dalla somma di addendi incorporei? Quest’argomento vi ha stesi? Mai abbassare la guardia critica!


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