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La logica stoica. V. Filosofia del linguaggio

La logica stoica. V. Filosofia del linguaggio

Gen 12

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Gli stoici potano la tavola aristotelica delle categorie (i concetti più generali), riducendole a quattro:

  1. la sostanza o soggetto (hypokeimenon), inteso come “sostrato materiale”, non già nel senso moderno, idealisticamente caricato, di “io”;
  2. la qualità essenziale (poion);
  3. la qualità accidentale o modo d’essere (pos echon);
  4. la qualità esprimente relazione o modo relativo (pros ti pos echon).

Vien da pensare alla gradualità sostanza-attributi-modi di Spinoza, considerato non a caso da molti uno stoico radicale e rigorosissimo.

Il rapporto tra le categorie è d’inclusione e determinazione della successiva da parte della precedente: tutto ciò che è in relazione deve avere un proprio modo d’essere, tutto ciò che ha un suo modo d’essere lo ha grazie a una qualità essenziale che lo differenzi dal resto e tutto ciò che ha una qualità siffatta la ha perché sussiste per sé a mo’ di sostanza. C’è comunque uno stacco netto tra le ultime e le prime due, l’importanza delle quali è maggiore visto che l’essenza risulta dall’unione immanente della qualità col sostrato, separabili solo logicamente e non anche ontologicamente: sostanza e qualità sono “penetrate interamente l’una nell’altra”, dichiarano gli stoici.

Le categorie sono riducibili al genere sommo, cioè al concetto più generale o più esteso di tutti, che non ne ha nessuno sopra di sé: l’essere. Alcuni stoici pensano che tale concetto sia invece quello del “qualcosa” (ti, aliquid), nella misura in cui, comprendendo anche agli oggetti di pensiero incorporei come i concetti e inesistenti come le figure mitologiche, è più esteso di quello di essere, il quale, come sappiamo, nell’ontologia materialista di questi pensatori, si estende esclusivamente ai corpi. Il concetto più determinato, per contro, è l’individuo, cioè la specie che non ha altra specie sotto di sé.

Per inoltrarci nella teoria del giudizio e del sillogismo, cuore della dialettica, bisogna partire dalla teoria del significato giacché gli stoici fondano la logica in senso stretto su una filosofia del linguaggio che godrà di grande fortuna tramite riadattamenti e tortuose trasmissioni che coinvolgeranno lo stesso Frege.
Orbene si distinguono tre elementi collegati grazie alla proposizione:

  1. il segno significante (semeion), cioè la voce articolata, la parola espressa, pronunciata;
  2. il significato (semainomenon, in seguito ribattezzato connotazione, intensione, comprensione, interpretante, senso (Sinn)), definito come ciò che è indicato dalla voce e che è appreso con la comprensione della corrispondente cosa esistente;
  3. ciò che si trova ad esistere (hyparchon, in seguito ribattezzato supposizione, estensione, significato, denotazione (Bedeutung)), cioè l’oggetto esterno.

Il significato media necessariamente il riferimento dell’espressione verbale, altrimenti puro suono asemantico, all’oggetto esistente. Ora, mentre il significante e ciò che si trova ad esistere sono corpi, il significato è un tertium quid incorporeo (asomaton), il che gli permette di fungere da mediatore e tramite tra i corpi: il corpo è esclusivamente un quid di individuale, ma il significato, in quanto concetto, è un universale predicabile non solo di uno ma anche di più individui. Il significato quale predicato (kategorema) è infatti così definito: “ciò che è congiunto ad una o a più cose”. Le intellezioni e le anticipazioni (prolessi) intese come tali significati (semainomena) universali sono riguardate da Cleante e Archedemo come meri “esprimibili” o meglio “detti” (lekta, dalla stessa radice di logos). L’esprimibile è definito come ciò che si verifica in concomitanza con una rappresentazione conforme a ragione.

Nonostante tale importante funzione logico-gnoseologia dei significati, in sede di ontologia l’incorporeità non comporta la loro trascendenza positiva (à la Platone) bensì la negazione della loro oggettività, un disprezzo che offenderà Proclo, diadoco (successore) di Platone. Per l’esattezza, ogni corpo è la causa, o il “ciò per cui”, di qualcosa d’incorporeo in un altro corpo (per esempio la spada (corpo) causa il predicato dell’essere ferito (incorporeo) nella carne della vittima (corpo) e il fuoco (corpo) causa il predicato dell’essere bruciato (incorporeo) nel legno (corpo)), per cui il predicato incorporeo è effetto della causa corporea.

A questo punto può sembrare che se l’effetto, a differenza dell’accidente rispetto alla sostanza, è qualcosa di separato dalla causa, senza la quale peraltro non si produce, all’incorporeo sia comunque garantito uno spazio, sia pur risicato, nella fisica. E invece per gli stoici questo effetto non è altro che un accidente o un evento accidentale. Forse qui parlano di “causa” e non, come sembrerebbe ovvio, di “sostanza” per sottolineare l’aspetto dinamico e l’efficienza del corporeo, più appropriate ad una fisica alternativa ad una filosofia prima ancor troppo platonica come quella aristotelica.


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