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L’etica stoica XVIII. Panezio e Posidonio sulla virtù

L’etica stoica XVIII. Panezio e Posidonio sulla virtù

Lug 06

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La tavola paneziana delle quattro virtù immette ecletticamente materiali aristotelici nell’impianto degli stoici antichi, la qual cosa è lampante nella divisione teoretiche-pratiche. Si ricordi inoltre che esse proseguono le tendenze istintuali naturalmente positive adeguandole alla massima perfezione razionale raggiungibile, in guisa di coerenza morale, da una natura umana ben foggiata dalla natura universale.

L’unica virtù teoretica, cioè il sapere, si basa sul desiderio, disinteressato e foriero di pure gioie intellettuali, di conoscere l’ignoto in forma semplice e schietta mediante la capacità d’indagare la verità con vista, udito ed apprendimento, coltivato nel tempo lasciato libero dall’espletamento dei doveri sociali e in particolare lavorativi quale loro stesso coronamento. Ci sono poi tre virtù pratiche organicamente connesse al sapere: grandezza d’animo, temperanza e giustizia.

  1. La grandezza d’animo ed il disprezzo dei beni esteriori si fondano sul desiderio di primato e d’indipendenza, di non obbedire a nessuno se non al sapiente che disseta il desiderio di conoscenza insegnando e prescrivendo con legittimità e giustizia ciò che è utile.
  2. La temperanza si fonda sul desiderio di moderarsi. Infatti grazie alla virtù del sapere, che coglie principio, appropriatezza e misura di ogni cosa, l’uomo, unico tra tutti i viventi, traspone analogicamente dagli occhi all’anima la sensazione di bellezza, grazia ed armonia tra le parti degli oggetti visibili, così da poter determinare l’ancor più importante giusto equilibrio delle proprie parole ed opere, che non devono mai trascendere indecorosamente nella dissolutezza.
  3. La giustizia si fonda sul desiderio di conservazione e difesa di sé e della propria comunità in quanto dotati essi pure di equilibrio razionale.

Probabilmente la rottura più clamorosa di Panezio nei confronti del rigorismo degli stoici antichi si ha colla sua negazione dell’impassibilità. Invece di sradicare le passioni, egli s’impegna ad insegnare la fortificazione del corpo e della mente per tenere sotto controllo razionale quelle negative come il dolore, che può interferire col compimento del dovere. Egli inoltre promuove addirittura una passione positiva come l’euthymia, ossia la contentezza d’un animo in pace con sé e col mondo grazie al compimento del dovere.

Concordemente con quanto detto sinora, Panezio si mostra infine scettico sulla possibilità per l’uomo d’incarnare la figura del saggio impassibile: richiesto se il saggio potesse amare, rinvia la risposta a “poi” (leggi: “mai”), accontentandosi di raccomandare a sé stesso ed all’interlocutore, distanti dalla saggezza, di non turbare irrazionalmente l’animo coll’umiliante servilismo (dicesi in slang “zerbinismo”) verso la persona amata.

L’allievo di Panezio Posidonio, pur sostenendo che l’essenza dell’uomo è la virtù ed invece la carne inutile e flaccida di nicoleminettiana memoria è solo ingorda di cibo, annovera tra i beni, seguendo il maestro, la salute, la forza, l’abbondanza di mezzi di sussistenza e la ricchezza, giudicate meri indifferenti dagli stoici antichi in quanto se ne può fare un uso anche cattivo oltre che buono. Benché queste dunque non siano più indifferenti, Posidonio lascia svettare come supremo bene la virtù: l’innalzamento di alcuni indifferenti non è concomitante all’abbassamento del bene morale al loro livello.

All’estremo opposto, poi, l’unico vero male resta il vizio, cioè il male morale, mentre quelli fisici e sociali devono lasciare indifferente il saggio. Posidonio da vecchio diede esistenzialmente testimonianza davanti a Pompeo Magno della validità di tale dottrina etica, fedele in questo alle origini zenoniane del suo pensiero: nonostante una grave forma di artrite gli procurasse un dolore fisico lancinante, al rammarico di Pompeo per il fatto che, così malridotto, non poteva tenergli lezione, Posidonio rispose di non voler vanificare la visita di un uomo tanto importante a causa di un mero indifferente e, stando a letto (altro che Portico!), prese subito ad argomentare proprio che l’unico bene è la coerenza morale, mentre zittiva il dolore negandogli lo statuto di male. Ma se la malattia non è un male, poteva ancora sostenere che la salute è un bene? Caso raro, Posidonio predicava male e razzolava bene.


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2 comments

  1. Massimo De Beni

    Sapere, grandezza d’animo, temperanza e giustizia… Qualità che trovano la loro rispettiva e sistematica negazione nella società contemporanea 🙁 Ci vorrebbe più stoicismo morale (nella sua accezione originale) e meno stoicismo pratico (nell’accezione gergale del termine)

    • Giulio Giacometti

      Caro Massimo,
      hai ragione. Purtroppo espressioni come “amor platonico”, “sopportare stoicamente”, “essere cinici” banalizzano, ridicolizzano e distorcono il pensiero, tuttora attuale, degli antichi.

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