L’etica stoica X. Doveri
L’etica stoica X. Doveri
Mag 29[ad#Ret Big]
Come all’inizio, a livello generale, tra beni e mali morali trovavano posto gl’indifferenti, cioè circostanze esterne da preferirsi come valori o da respingersi come disvalori a seconda che fungessero o meno da condizioni naturali necessarie al darsi dei beni, altrettanto ora, al livello particolare delle azioni, gli stoici ammettono, quali intermedi tra azioni razionali perfette e virtuose (katorthomata) e azioni viziose (amartemata), i doveri o, sarebbe meglio dire per evitare di essere fuorviati dal formidabile slittamento semantico nel quale il concetto di dovere è storicamente incorso, le azioni impulsive imperfette ma appropriate, convenienti (kathekonta, officia).
Dunque i doveri fungono da condizioni naturali necessarie od utili all’effettiva realizzazione delle azioni virtuose. E così, ancora similmente agl’indifferenti, le azioni convenienti compiute conformemente a ragione ed in linea colla costituzione naturale dell’agente, predisponendo la compagine all’attuazione dei katorthomata (dotati di valore assoluto), godono di giustificazione razionale e sono dotate di valore relativo, mentre quelle che intralciano l’aver luogo della virtù senza impedirlo completamente, cioè i non-doveri, sono dotate di disvalore relativo.
Anche gli atti di piante ed animali sono giustificabili; in particolare, come visto in sede di fisica, gli enti biologici mostrano una coerenza tesa istintualmente a salvaguardare la struttura e l’equilibrio omeostatico del loro organismo al fine di sopravvivere come individui e come specie. Nel caso dei viventi subumani, però, all’adempimento dei doveri meramente naturali verso se stessi o, nei casi migliori, verso il branco non sopravviene l’esercizio dell’azione virtuosa, prerogativa esclusiva degli esseri umani. A dire il vero, la gran massa del’umanità è più vicina all’animalità che alla saggezza (polloi kakoi: i molti sono cattivi, solevano dire mediterraneamente i greci). L’uomo comune infatti si attiene al mero dovere, al massimo sfiorando la messa in pratica della virtù riservata a quella sublime eccezione antropologica che è il saggio (ma esisterà poi questo fantomatico saggio?; come diceva Panezio, ne parleremo un’altra volta).
Non bisogna peraltro sottacere il fatto che il saggio deve comunque, in certe circostanze, compiere dei doveri, ritenendoli tanto importanti da indurlo a scendere dal piedistallo della virtù, se non altro perché anch’egli, vivendo secondo natura e secondo l’oikeiosis, ama la sua vita e fugge lo stato contrario di morte al pari dello stolto e dell’essere vivente: l’azione di stare in vita è l’unica intersezione, minimale ma fondamentale e potenzialmente devastante per l’etica stoica, tra l’insieme delle azioni compiute dallo stolto e l’insieme di quelle compiute dal saggio, è un dovere comune a entrambi, il che a prima vista conferma la natura mediana del dovere tra katorthoma ed amartema. Ma se il saggio non sbaglia mai, che differenza c’è tra azione retta, dal valore assoluto, e un tale dovere, che in teoria ha un valore solo intermedio e relativo, scelti entrambi senza esitazione dal saggio? La differenza sembra solo una finezza teorica che va persa fenomenologicamente e praticamente.