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L’etica stoica II. Autoappropriazione

L’etica stoica II. Autoappropriazione

Apr 22

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Cerchiamo di determinare la coincidenza, teorizzata dagli stoici, tra il vivere conformemente alla natura ed il vivere conformemente alla ragione nel suo fondamento, che funge da punto di raccordo tra fisica ed etica.

La tendenza di ogni essere vivente è l’autoconservazione, la fedeltà alla propria natura particolare, la spinta a conservarsi nell’esistenza (conatus in existentia perseverandi, dirà Spinoza), che comporta la gioia di sentirsi vivo, l’amore e il rispetto di sé. Questa finalità minimale è realizzata appropriandosi dei mezzi che mantengono e incrementano la vitalità e fuggendo i loro contrari. Tale forza autoconservativa è detta oikeiosis: conciliazione con, attrazione verso, appropriazione di sé e delle cose che promuovono la vita. Essa è la base dell’etica, nella misura in cui per vivere bene, felicemente e virtuosamente è necessario restare in vita.

Negli organismo vegetali l’oikeiosis opera automaticamente e inconsapevolmente, senza impulso e sensazione: la loro sopravvivenza è garantita dalla provvidenza della natura. Negli animali invece l’oikeiosis affiora come l’istinto o impulso principale, rispetto al quale gli altri istinti sono modificazioni e mediazioni: gli animali si fanno guidare dall’istinto. Solo con l’uomo l’istinto dell’oikeiosis è raffinato dall’intervento della ragione: il telos essenziale dell’uomo è non il mero stare in vita, ma il corrispondere pienamente nei suoi atti alla razionalità cosmica, ancora implicita e come monca negli organismi subumani. Perciò l’uomo per vivere secondo natura deve vivere secondo ragione: solo quest’ultima attua la sua oikeiosis distintiva, conciliandolo con se stesso.

Una dottrina interessante e moderna è quella in base a cui l’oikeiosis è innata ed accompagnato dalla synaisthesis (alla lettera “compercezione”), cioè dalla coscienza. Infatti sulla percezione (aisthesis), funzione fondamentale dell’anima presente in animali ed uomini, sopravviene la coscienza:  sin dalla nascita, quando si ha la sensazione di un oggetto esterno, per esempio ruvido o freddo, contemporaneamente si è coscienti di uno stato mentale interno corrispondentele, il quale a sua volta innesca nell’anima un movimento attivo, un impulso istintuale a rivolgersi verso e ad appropriarsi della costituzione che si sente appartenere (oikein) a sé come la propria: ecco l’oikeiosis.

Quest’ultima poi produce un altrettanto innato senso di appagamento e autocompiacimento (euarestesis) che fa amare se stessi e desiderare la perpetuazione di un tale stato positivo ricercando quanto lo agevola ed evitando quanto nuoce grazie all’istinto originario di autoconservazione e cura di sé.

In tal modo l’impulso a ricercare il piacere o la gioia rifiutando il dolore non è l’elemento primo dell’etica, un fatto da assumere e su cui costruire la teoria come faceva Epicuro, ma ha alle sue spalle un ancor più fondamentale quadro ontologico, una teoria dell’ordine cosmico che dà senso a ed incentiva la collocazione e la costituzione di ciascun ente singolo. Il piacere o il dolore sono effetto e non causa: ad esempio il bambino quando cerca il capezzolo della madre per la prima volta non sa ancora che il latte è gustoso, ma è l’oikeiosis che lo guida.


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2 comments

  1. Giuseppe Farinetti

    Non sono convinto che la frase seguente che avete usato sia una descrizione completamente adeguata della complessa questione dell’emergenza dell’oikeiois nell’uomo:
    “Solo con l’uomo l’istinto dell’oikeiosis è raffinato dall’intervento della ragione: il telos essenziale dell’uomo è non il mero stare in vita, ma il corrispondere pienamente nei suoi atti alla razionalità cosmica, ancora implicita e come monca negli organismi subumani”.
    Non per tutti gli stoici vivere secondo ragione significa vivere seguendo la razionalità cosmica, come voi scrivete: esiste un’ambivalenza interna alla tradizione stoica che si esprime nella differenza tra chi fa coincidere il vivere secondo il fine proprio dell’uomo con l’aderire all’ordine cosmico divino (con inevitabili esiti di fatalismo e/o di accettazione dell’ordine esistente delle cose) e chi lo fa coincidere con l’adesione ai criteri di razionalità che il saggio (e solo il saggio)possiede.
    Cordiali saluti e buon lavoro

    • Giulio Giacometti

      Grazie della preziosa precisazione. Essendo un articolo introduttivo e volendo tematizzare la figura del saggio verso la fine della trattazione dell’etica, ho stilizzato e semplificato la questione.
      Cordiali saluti.

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