Arriano, Manuale di Epitteto (1)
Arriano, Manuale di Epitteto (1)
Gen 151. Tra gli essenti, gl’uni son obbedienti a noi, gl’altri non obbedienti a noi. Son obbedienti a noi: presa di posizione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanti son nostre funzioni; non son obbedienti a noi, invece, il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanti non son nostre funzioni. [2] E, mentre quelli obbedienti a noi sono per natura liberi, non troncabili e non impediti, quelli non obbedienti a noi son deboli, schiavi, troncabili ed alieni. [3] Rammenta quindi che, se crederai liberi quelli per natura schiavi e tuoi propri quelli alieni, sarai impedito, patirai, ti turberai, rimprovererai sia dèi sia uomini; se invece crederai tuo solo il tuo, ma alieno – come per l’appunto è – l’alieno, nessuno ti forzerà giammai, nessuno ti stroncherà, non rimprovererai nessuno, non accuserai nessuno, non farai nessuna cosa controvoglia, nessuno ti danneggerà, non avrai nemico, giacché, ecco, non patirai danno alcuno. [4] Quindi, gettandoti in obiettivi talmente importanti, rammenta che non devi esser misuratamente sollecito per adattarti ad essi, ma devi abbandonare del tutto definitivamente delle cose e, al presente, posporne altre. Se invece brami loro ed anche comandare ed arricchirti, forse non avrai successo neppure in questi obiettivi per il fatto di gettarti in quei primi, ed ecco che avrai un totale insuccesso in quelle cose per mezzo delle quali soltanto si generano libertà e felicità. [5] Quindi esercitati subito a ragionare replicando ciò ad ogni rappresentazione aspra: «sei rappresentazione ed assolutamente non il rappresentato». Poi esaminala e valutala con i canoni che hai, dunque per primo con questo, cioè col migliore: valuta se è pertinente agli enti obbedienti a noi o pertinente a quelli non obbedienti a noi; e se è pertinente a qualcuno di quelli non obbedienti a noi, sia pronto il “perciò”: «per me non è nulla».
2. Rammenta che la promessa del desiderio è l’ottenimento di ciò che desideri, la promessa dell’avversione è di non far inciampare in quello che avversi, e che colui che non va a segno nel desiderio non è fortunato, mentre colui che inciampa nell’avversato è sfortunato. Ebbene, se avverserai i soli enti contro natura tra quelli obbedienti a te, non inciamperai in alcuno di quelli che avversi; invece se avverserai malattia o morte o povertà, sarai sfortunato. [2] Togli dunque l’avversione da tutti quelli non obbedienti a noi e riponila in quelli contro natura tra gli obbedienti a noi. Dunque rifiuta definitivamente, nel presente, il desiderio: ecco che se desideri qualcuno di quelli non obbedienti a noi, di necessità non avrai fortuna, e poi ancora nessuno di quelli obbedienti a noi, cioè di quanti sarebbe eventualmente bene desiderare, è dipendente da te. Dunque usa solo l’impulso e la ripulsa, leggermente comunque e con riserva e non di getto.
Traduzione latina di Angelo Poliziano (1479)
EPICTETI STOICI ENCHIRIDION AB ANGELO POLITIANO E GRAECO VERSUM
I. QUAE IN NOBIS SINT QUAEVE NON, QUALIAVE QUAEQUE SINT.
[1, 1] Eorum quae sunt partim in nobis est, partim non est. In nobis est opinio, conatus, appetitus, declinatio et, ut uno dicam verbo, quaecunque nostra sunt opera. Non sunt in nobis corpus, possessio, gloria, principatus et uno verbo quaecunque nostra opera non sunt. [1, 2] Quae igitur in nobis sunt, natura sunt libera, nec quae prohiberi impedirive possint. Quae in nobis non sunt, ea imbecilla, serva, et quae prohiberi possint, atque aliena.
II. QUID EX EORUM QUAE NOSTRA QUAEQUE ALIENA SINT IGNORATIONE NOTITIAQUE EVENIAT.
[1, 3] Si quae natura sunt libera serva putabis et aliena quae sunt propria, impedieris, dolebis, turbaberis, incusabis deos atque homines. Si vero, quod tuum est, id solum tuum esse putabis, et alienum quod re vera est alienum, nemo te coget unquam, nemo prohibebit, neminem culpabis, neminem accusabis, invitus nihil ages, nemo te laedet, inimicum non habebis.
III. QUOD ALIENA OMITTENDA, NOSTRA CURANDA, QUODQUE UTRAQUE ASSEQUI NON EST.
[1, 4] Si ergo talia expetis, memento non oportere modice commotum ea attingere, sed partim omnino dimittere, partim in praesentia reicere, ac primo tui ipsius curam agere. Si autem et haec ipsa velis, regnare scilicet, dives esse et domesticos dirigere, fortasse neque haec ipsa consequeris, quia priora quoque expetis: illa vero nullo modo consequeris, quae sola homini felicitatem pariunt.
IV. QUO NOS PACTO IN ASPERA QUAVIS IMAGINATIONE GERERE OPORTEAT.
[1, 5] Continuo igitur in quavis aspera imaginatione disce considerare imaginationem esse illam neque id omnino esse quod videtur. Deinde scrutare id et examina his regulis quas habes, primaque hac et maxime, utrum circa ea sit quae sunt in nobis an quae non sunt. Quod si circa aliquod eorum sit quae in nobis non sunt, promptum hoc esto: «nihil ad me».
V. QUOMODO TRACTANDA SINT QUAE IN NOBIS SUNT.
[2, 1] Memento appetitus promissionem esse, ut consequaris quod appetis; declinationis autem promissionem, ut in id non incidas quod declinas. Qui ergo appetitus promissione excidit infortunatus est, qui autem in id quod declinat incidit male est fortunatus. Si ergo sola declines quae praeter eorum naturam sunt, quae in te sunt, nunquam in id incides quod declinabis. Morbum autem si declines aut mortem aut paupertatem, male fortunatus eris. [2, 2] Aufer igitur declinationem ab omnibus quae non sunt in nobis, eamque transfer in ea quae praeter eorum naturam sunt, quae in nobis sunt. Appetitum vero penitus in praesentia aufer. Si enim appetis quae in nobis non sunt, ab aliquo eorum excidas necesse est: quantum vero eorum quae sunt in nobis appetere expediat, nondum tibi constat. Solo animi conatu aut avocatione utere leviter et cum supputatione et remisse.
Traduzione italiana di Giacomo Leopardi (1825)
VOLGARIZZAMENTO DEL «MANUALE»
Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro la opinione, il movimento dell’animo, l’appetizione, l’aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti.
Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.
Ricórdati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t’interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei. Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà, essendo che in effetto tu non riceverai nocumento veruno.
Ora se tu sei desideroso di pervenire a questo sì felice stato, sappi che a ciò si richiede sforzo e concitazione d’animo non mediocre, e che di certe delle cose di fuori tu déi lasciare il pensiero al tutto, di certe riservarlo per un altro tempo, e attendere alla cura di te medesimo sopra ogni cosa. Che se tu vorrai ad un’ora procacciare i predetti beni ed anco dignità e ricchezze, forse che tu non otterrai né pur queste, per lo studio che tu porrai dietro a quelli, ma di quelli senza alcun dubbio tu sarai privo, i quali sono pur così fatti, che solo per virtù di essi si può goder beatitudine e libertà.
Per tanto a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvézzati a dire: questa è un’apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente con vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltà o vero a quelle che non sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ciò a me non rileva nulla.
Sovvengati che l’intento dell’appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l’intento dell’aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel che egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l’animo tuo non ischiferà se non solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non ti avverrà d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietà. Ma se egli sarà vólto a schifare i morbi, la povertà, la morte, tu avrai cattiva fortuna.
Astienti dunque dall’aversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che non sono in nostro potere, e in quella vece fa di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltà, si troveranno essere contro natura. Dall’appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocchè se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestà dell’uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbono degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell’animo ad appetire o schifare, con questo però che elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto.
Brano seguente: Arriano, Manuale di Epitteto (2)