Temi e protagonisti della filosofia

Arriano, Manuale di Epitteto (5)

Arriano, Manuale di Epitteto (5)

Feb 02

Brano precedente: Arriano, Manuale di Epitteto (4)

 

22. Se aspiri alla filosofia, preparati da adesso ad esser deriso, ad esser dileggiato dai più, siccome diranno ciò: «all’improvviso ci ritorna filosofo», e «da dove ci viene questo cipiglio?». Tu però non tenere il cipiglio; invece abbi come disposizioni quelle che ti paiono le migliori, come fossi inserito da Dio in questo posto; e rammenta che se rimarrai nelle identiche disposizioni coloro che prima ti deridevano poi si stupiranno di te, mentre se verrai meno ad esse prenderai una derisione doppia.

23. Se mai ti avvenisse di volgerti all’esterno per voler compiacere qualcuno, vedi che avrai perduto il proposito istituito. Ti basti quindi, in ogni circostanza, essere filosofo; se inoltre vuoi anche sembrarlo, mostrati tale al cospetto di te stesso e ci sarai arrivato.

24. Che questi pensieri non t’affliggano: «io vivrò non onorato e non sarò nessuno da nessuna parte». Se, ecco, l’assenza d’onore è male, non puoi essere in una cattiva situazione a causa di un altro, come neppure in una vergognosa; qualcosa come pigliare una carica o esser invitato a banchettare non sarà mica una tua funzione? In nessun modo. E quindi come può esserci assenza d’onore? Come, dunque, potrai non essere nessuno da nessuna parte tu che devi essere qualcuno nelle sole occasioni obbedienti a te, nelle quali ti è possibile essere degno al massimo? [2] Ma, secondo te, gli amici saranno senza soccorso. Perché dici questo: “senza soccorso”? Non avranno da te un soldo, né farai di essi cittadini romani. Ebbene, chi ti ha detto che queste cose sono tra quelle obbedienti a noi, dunque che non son funzioni aliene? Chi dunque può dare ad un altro ciò che non ha egli stesso? [3] «Acquisisci quindi», dice, «affinché poi ne abbiamo noi». Se posso acquisire mantenendo rispetto e affidabilità e magnanimità, indicami la via ed acquisirò. Se invece esigete che io perda i beni miei per far avere a voi quelli che beni non sono, guardate voi come siete iniqui e sconsiderati. E dunque che cosa volete maggiormente? Denaro od un amico fidato e rispettoso? Quindi meglio che mi consigliate su questo, e non esigete che io faccia quelle azioni mediante le quali respingerò queste qualità. [4] «Ma la patria, per quanto obbedisce a me», dice, «sarà senza soccorso». Daccapo: e quale sarebbe questo soccorso? Da te non avrà portici e bagni pubblici. E con ciò? Neanche, ecco, ha calzature dal fabbro né armi dal calzolaio; dunque, se ciascuno adempie alla sua funzione, è sufficiente. Se dunque le fornissi un altro cittadino fidato e rispettoso, allora non le gioveresti in nulla? «Sì». Allora neppure tu le saresti non giovevole. [5] «Quindi quale posto avrò», dice, «nella città?». Quello che potresti avere custodendo simultaneamente affidabilità e rispetto. Se invece, pur volendo giovarle, respingerai questi, in che le sarai giovevole, una volta divenuto impudente ed infido?

25. Qualcuno è stato onorato più di te in un banchetto o in un saluto o nell’esser interpellato per un consiglio? Beh, se questi sono beni, devi rallegrarti perché egli li ha colti; se invece son mali, non crucciarti perché tu non li hai colti; rammenta dunque ciò: che, non facendo le azioni per cogliere le cose che non dipendono da noi, non puoi esigere eguali ottenimenti. [2] Ecco, colui che non bazzica alla porta di qualcuno, che non si mette in fila, che non elogia, come può avere un ottenimento uguale a quello di colui che ci bazzica, che si mette in fila, che elogia? Sarai quindi ingiusto ed insaziabile se anziché corrispondere il costo al quale queste cose si vendono vorrai prenderle gratis. [3] Ma quanto costa della lattuga? Forse questo: un obolo. Se quindi qualcuno corrispondendo un obolo prende della lattuga, mentre tu non corrispondendolo non ne prendi, non è possibile che abbia meno di colui che l’ha presa. Come, ecco, lui ha la lattuga, così tu hai l’obolo che non hai dato. [4] Capita nello stesso modo, dunque, anche in questo caso. Non sei stato invitato da qualcuno ad un banchetto? Ecco, non hai dato a colui che invita il quantitativo per il quale vende il pasto. Egli vende dunque per un elogio, vende per un servigio. Da’ quindi il corrispettivo, se determina per te una buona soluzione, il quantitativo per cui si vende. Se però vuoi non corrispondergli quei prezzi eppure prendere queste cose, sei insaziabile ed insulso. [5] Non ottieni quindi nulla al posto del pasto? Ebbene, ottieni questo: di non elogiare colui che non volevi elogiare, di non dover sostenere quel che occorre al suo ingresso.

 

Traduzione latina di Angelo Poliziano (1479)

XXVII. SECUNDA PARS, QUA EUM QUI IAM PROFECERIT INSTITUIT, EAQUE PRIMO DISSOLVIT, QUAE PHILOSOPHARI INCIPIENTIBUS OCCURRUNT.

[22] Si philosophiam cupis, praepara te continuo ut irridearis, ut subsanneris a multis, ut dicant: «repente nobis philosophus emersit», et «unde nobis hoc supercilium?». Tu vero supercilium quidem ne habe, quae vero tibi optima videntur ita retine, tanquam sis a deo in hac acie collocatus. Quod si persistes in iisdem, et qui te prius deridebant iidem postea admirabuntur; si vero iis terga dederis, dupla irrisione afficieris.

XXVIII. QUOD A SE IPSO AD EXTERNA CONVERSIO PHILOSOPHI STATUM DESTRUIT.

[23] Si quando evenerit ut ad ea quae extra sunt te convertas velisque cuipiam placere, scito te de statu decidisse. Satis igitur tibi in omnibus sit philosophum te esse. Si autem videri etiam vis, tibi ipsi videare, et satis erit.

XXIX. SOLUTIO EMERGENTIUM IN EIUS ANIMO COGITATIONUM QUI PHILOSOPHIAM AGGREDIATUR.

[24, 1] Hae te cogitationes ne crucient: «honore carebo, neque usquam ullus ero». Si enim carere honore in malis est (ut certe est), non potes in malo esse propter aliud, non magis quam in turpi. Nunquid igitur tuum opus est principatu potiri, convivio accipi? Minime. Quomodo igitur hoc est honore carere? Quomodo vero neque usquam ullus eris, quem in iis solis esse oportet quae sunt in te, in quibus tibi ipsi maximi esse licet? [24, 2] «Sed amicis prodesse non potero». Quid tu ais prodesse? Non habebunt abs te argentum neque eos cives Romanos facies. Quis tibi ergo dixit esse haec in nobis et non aliena opera? Quis autem potest dare alteri quod ipse non habet? [24, 3] «Posside igitur», inquit, «ut et nos habeamus». Si possum possidere servans memet verecundum, fidum et magnanimum, ostende viam, et possidebo. Si vero aequum ducitis mea me bona perdere, ut vos quae bona non sunt acquiratis, vos ipsi videte quam iniqui sitis quamque ingrati. Quod si fidum verecundumque amicum argento praeponitis, in hoc vos mihi opitulamini, neque ea me agere aequum ducite quibus hoc perdam. [24, 4] «Sed patria, quantum in me erit, adiumento carebit». Rursus, quod tu hoc ais adiumentum? Porticus non habebit per te neque balneas. Quid tum? Neque enim calceos habet per cerdonem neque arma per fabrum. Satis est autem si suum quisque opus expleat. Quod si ei quempiam alium compares civem fidum et verecundum, nihilne ei prodes? Utique. Neque tu igitur inutilis illi eris. [24, 5] «Quo igitur ordine in civitate ero?». Quo poteris, servans simul te fidum et verecundum. Quod si, dum illi prodesse velis, haec perdas, quem tu illi usum afferes, qui impudens infidusque evaseris?

XXX. CONTINUATIO EORUM SOLUTIONIS QUAE PHILOSOPHARI INCIPIENTEM IMPEDIUNT.

[25, 1] Praepositus tibi est quispiam in convivio aut in salutatione aut in consilio? Si haec bona sunt, gaudere te oportet quia his potitus sit ille; si mala, ne aegre fer quia tibi non acciderunt. Memento autem non posse te haec solummodo facientem paria cum ceteris consequi in iis quae in nobis non sunt. [25, 2] Quomodo ergo paria habere potest alicuius fores non frequentans cum eo qui frequentat, non deducens cum deducente, non laudans cum laudante? Iniustus igitur eris atque inexplebilis, si his nequaquam relictis quibus illa emuntur, ea gratis volueris. [25, 3] Sed quanti emuntur lactucae? Obolo, si ita contingat. Ut igitur, cum quis obolum praebens accipiat lactucas, tu non praebens non accipias, haud minus habere te censes eo qui accepit (ut enim ille habet lactucas, sic tu obolum non dedisti), [25, 4] eodem modo hic evenit. Non vocaris ad cuiusquam convivium? Non enim quanti convivium emitur dedisti. Laude id vendit, ministerio vendit: da igitur, si tibi conducit, quanti emitur. Quod si et illa amittere non vis et haec accipere, inexplebilis es et stolidus. [25, 5] Nihil igitur habes pro coena? Nempe habes quod non laudas quem non vis, quod non ea perfers quae ad eius limen perferuntur.

 

Traduzione italiana di Giacomo Leopardi (1825)

Vuoi tu darti a filosofare? Apparécchiati insin da ora a dovere essere schernito e deriso da molti; aspéttati che la gente dica: oh, egli ci si è tramutato in filosofo a un tratto, e: che vogliono dire quelle sopracciglia aggrottate? Ora tu non aggrottare le sopracciglia, ma non lasciar però di attenerti a quello che tu estimi il migliore, perseverando, come a dire, in una ordinanza nella quale tu sii stato collocato da Dio. E sappi che se tu durerai nel tenor di vita incominciato, quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d’animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie.

Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sarà intervenuto di versarti, per dir così, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l’abito, e sarai uscito dei termini del tuo instituto di vita. Però non cercare altro mai che di esser filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti.

Non istare a darti pena e sconforto dicendo fra te medesimo: io menerò una vita ignobile, e: io non sarò nulla. Perocchè se la ignobilità è un male, non puoi tu patire alcun male per cagion d’altri, più di quello che incorrere in alcuna vergogna. Ora dimmi, il pervenire a un ufficio pubblico, o l’esser chiamato a un convito, forse che sta in tuo potere? or come dovrà egli essere ignobile o ignominioso che tu non abbi parte in questo convito o che non pervenghi a questo ufficio? E come dì che tu non sarai nulla, quando a te non si conviene essere qualche cosa se non solamente in quello che è in tua facoltà, dove tu puoi bene essere d’assaissimo? Ma gli amici non avranno da me aiuto nè benefizio alcuno. Di che benefizi e di che aiuti vuoi tu intendere? Non avranno da te oro e, quanto è a te, non saranno fatti cittadini romani. Ora chi ti ha detto che queste sono cose di quelle che dipendono dal nostro arbitrio, e non cose poste in potere altrui? Chi può dare a un altro ciò che non ha egli? E tu fa di acquistare, dirà qualcuno, per poter dare a noi. Se io posso acquistare, salva in me la verecondia, la fede, e l’altezza dell’animo, mostratemi come si faccia, e io non mancherò. Ma se voi volete che io perda i miei propri beni perchè voi dobbiate ottener cose che non sono beni, vedete che poca equità e che indiscrezione è la vostra. Oltre che, qual vi eleggereste voi prima, tra danari e un amico fedele e ben costumato? Che non mi aiutate voi dunque piuttosto a esser tale, in cambio di volere che io faccia cose per le quali mi convenga perdere queste virtù? Ma la patria non avrà da me alcun servigio. Ancora, di che servigi vuoi tu intendere? Non avrà per opera tua nè bagni nè portici. Oh, che maraviglia? Nè anco ha calzari dal fabbro, nè arme dal calzolaio. Egli basta bene che ciascheduno adempia l’ufficio suo. Dimmi, se tu instituissi e informassi alla tua patria un altro cittadino modesto e leale, non le faresti tu alcun benefizio? Certo che sì. Or come le sarai dunque inutile tu medesimo, essendo tale? Ma che luogo terrò io nella patria? quello che tu potrai, salva la modestia e la fede. Che se per voler giovare alla patria, tu perderai la fede e il pudore, che profitto le farai tu, divenuto che sarai sleale e impudente?

Ti è egli stato anteposto di onore il tale o il tale a un banchetto, o pur nel saluto, o nell’esser cerco di consiglio? se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe esser caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dee dispiacere che non sieno toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare al paro cogli altri. Come può, per modo di esempio, colui che non frequenta le soglie dei grandi, che non gli accompagna, che non gli loda, andar del pari a coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi dei potenti e dei ricchi, tu gli volessi avere gratis. A quanto si vendono le lattughe oggi? Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo che uno, spendendo un obolo, abbia tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non déi però pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocchè se egli avrà le lattughe, e tu avrai l’obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato invitato a cena dal tale. Ma nè anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu non hai nulla? Sì che tu hai ben questo, che tu non hai lodato chi non volevi, che non sei stato ad aspettarlo in sull’uscio.

 

Brano seguente: Arriano, Manuale di Epitteto (6)

 

 


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