Temi e protagonisti della filosofia

Arriano, Manuale di Epitteto (11)

Arriano, Manuale di Epitteto (11)

Mar 12

Brano precedente: Arriano, Manuale di Epitteto (10)

 

46. Non dirti in nessuna circostanza filosofo, né chiacchierare, in presenza delle persone comuni, dei principi teorici, ma compi le azioni derivanti dai principi teorici; così, in un convito, non argomentare come si deve mangiare, ma mangia come si deve: rammenta, ecco, che Socrate aveva tolto dappertutto l’ostentazione, cosicché coloro che volevano stabilire contatti con filosofi andavano da lui e lui li conduceva da loro; a tal punto accettava di non esser riverito. [2] E se, in mezzo a persone comuni, il discorso cade su qualche principio teorico, rimani in silenzio per lo più: grande, ecco, è il rischio che subito rigetti quelli che non hai digerito. E quando qualcuno ti dice che non sai nulla e tu non senti il morso, allora sappi che sei all’inizio dell’opera, giacché neanche le pecore offrono il foraggio ai pastori per indicare quanto ne han inghiottito, ma, avendo digerito l’erba dentro, offrono esternamente lana e latte; anche tu, orbene, non predicare i principi teorici alle persone comuni, ma mostra le opere derivanti da essi una volta digeriti.

47. Qualora ti sia adattato nel corpo alla frugalità, non farti bello di questo, né, se bevi acqua, dichiarare ad ogni occasione che bevi acqua. E, allorquando vorrai esercitarti alla fatica per te stesso e non per gli estranei, non abbracciare le statue, ma, quando hai una forte sete, tira su acqua fresca e sputa e non dirlo a nessuno.

48. Stato e carattere della persona comune: non aspetta mai da se stessa utilità o danno, ma dalle cose esterne. Stato e carattere del filosofo: aspetta ogni utilità e danno da se stesso. [2] Segni del progrediente: non biasima nessuno, non elogia nessuno, non rimprovera nessuno, non incolpa nessuno, non dice nulla di se stesso come se fosse qualcuno o sapesse qualcosa. Quando ha qualche impedimento od è troncato nell’agire, incolpa se stesso. E se qualcuno lo elogia, sorride tra sé e sé dell’elogiante, e se qualcuno lo biasima, non si difende. Si comporta dunque come i convalescenti, prendendo la precauzione di non muovere alcuna delle parti che si stan ristabilendo prima che prenda solidità. [3] Ha tolto da se stesso ogni appetito; l’avversione, invece, l’ha spostata verso i soli enti contro natura tra quelli obbedienti a noi. In tutte le cose, non usa di getto l’impulso. Se sembra sciocco od ignorante, non se ne cura, e, in una parola, spia se stesso come un nemico, insidioso pure.

49. Quando qualcuno si vanta di poter intendere e spiegare i libri di Crisippo, tu di’ a te stesso ciò: «Se Crisippo non avesse scritto oscuramente, costui non avrebbe nulla di cui vantarsi». Io invece che cosa voglio? Comprendere la natura e seguirla. Cerco quindi chi può spiegarmela e, udendo che è Crisippo, mi accosto a lui, ma non ne intendo gli scritti; cerco quindi colui che li spieghi. E fino a qui non c’è ancora nulla di cui vantarsi. Quando dunque trovo colui che li spiega, resta da usare questi enunciati: di questo solo ci si può vantare. Se invece ammiro questo spiegare di per se stesso, che altro son alla fine diventato se non un grammatico anziché un filosofo, con la sola differenza che spiego Crisippo anziché Omero? Piuttosto, quando qualcuno mi dice: «Fammi una lettura esplicativa di Crisippo», arrossisco quando non son capace di mostrare opere simili e consonanti con questi argomenti.

50. Rimani fermo in tutti quanti i proponimenti che hai fatto come in leggi, come se fossi empio se contravvenissi a qualcuno di loro. Dunque, qualunque cosa si dica di te, non rivolgervi attenzione: questo, ecco, non è più affar tuo.

 

Traduzione latina di Angelo Poliziano (1479)

LXI. ADVERSUS GLORIAM ATQUE OSTENTATIONEM, ET PRIMO CIRCA SCIENTIAM.

[46, 1] Nullo modo te ipsum dixeris philosophum, neque multum loquere inter ineruditos de speculationibus, sed fac aliquid ex ipsis speculationibus. Veluti in convivio ne dic quo pacto oporteat comesse, sed comede ut oportet. Memento enim et Socratem undecunque abstulisse ostentationem. [46, 2] Quod si de aliqua speculatione sermo inter ineruditos incidat, tace ut plurimum. Magnum enim periculum est evomere quae non concoxeris. Et cum quis dixerit te nihil scire, idque te non remordeat, tunc scito initium esse operis. Nam et oves non herbam evomentes pastoribus ostendunt quantum comederint, sed cibum intus concoquentes, vellera extra ferunt et lac. Et tu igitur ne speculationes ineruditis ostenta, sed ex his concoctis opera.

LXII. ADVERSUS SOBRIETATIS TOLERANTIAEQUE OSTENTATIONEM.

[47] Cum attenuato sis corpusculo, ne tibi ob id place. Neque, si aquam bibas, ex quavis occasione dic: «aquam bibo», [Simpl. p. 131, 47-49], sed cogita quam sint mendici abstinentiores nobis quamque tolerantiores, tum quot alia non habeamus bona, quae alii habent. Quod si exerceri velis ad laborem ac patientiam tecum ipse hoc fac, neque ab externis videri velis, [Simpl. p. 132, 7-10] ut qui vim patientes a potentioribus, quo populum convocent, statuas inscendunt et se vim pati clamant. [Simpl. p. 132, 13-17] Ostentator enim totus extra vergit, et patientiae atque abstinentiae bona destruit, cum eorum finem statuit esse multorum opinionem.

LXIII. DESCRIPTIO TRIPLICIS HABITUS INERUDITI, PHILOSOPHI ET PROFICIENTIS.

[48, 1] Ineruditi status et formula est nunquam a se ipso expectare utilitatem aut nocumentum, sed ab externis. Philosophi status et formula omnem utilitatem ac nocumentum a se ipso expectare. [48, 2] Signum proficientis hoc est: neminem vituperat, neminem laudat, de nemine queritur, neminem accusat, nihil de se ipso dicit, ceu si sit aliquis aut aliquid sciat; cum in re quapiam aut impeditur aut prohibetur, se ipsum accusat; et si quis ipsum laudet, ridet laudantem ipse secum; et si vituperet, non se expurgat. Degit autem instar valetudinarii, cavens aliquid eorum quae sunt in se commovere, priusquam ad soliditatem perveniat. [48, 3] Appetitum omnem a se ipso sustulit; declinationem vero in ea tantum quae sunt contra naturam, eorum videlicet quae sunt in nobis, transtulit. Conatu ad omnia remisse utitur. An stultus an rudis dicatur, minime curat: utque uno explicem verbo, quasi adversarium se ipsum observat et quasi insidiatorem.

LXIV. QUOD VERBA PROPTER OPERA.

[49] Cum quis ideo gloriatur quod Chrysippi sententias interpretatur, dicat ipse secum: «nisi operte Chrysippus scripsisset, nequaquam haberem unde gloriarer». [Simpl. p. 134, 13-21] Sed scripsit Chrysippus non ut quis eum interpretaretur, sed ut secundum se operaretur. Si ergo scriptis utar, tum eorum bonum fuero consecutus: si autem interpretantem admirer aut etiam ipse interpretari possim, grammaticum, non philosophum admirer aut agam. [Simpl. p. 134, 27- 31] Quid autem prodest medicamenta quaedam invenisse descripta eaque intelligere atque aliis tradere, ipsummet aegrotantem minime eis uti?

LXV. QUOD IN HIS PERSEVERANDUM.

[50] In proposito perseverandum velut in lege est. Persta igitur, velut, si haec transcendas, impius sis futurus. Quod si quis de te dixerit, ne cura: id enim tuum non est.

 

Traduzione italiana di Giacomo Leopardi (1825)

Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dee. Nè ti esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da se ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo che ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro.

Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocchè altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udir questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch’elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni.

Quando tu sarai perfetto quanto all’uso e al reggimento del corpo, non voler però pavoneggiarti e far mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: io non beo che acqua. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, ma talora che tu arderai dalla sete, piglia una boccata d’acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto.

Stato e contrassegno dell’uomo comune si è, nè beneficio nè danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da se medesimo.

Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di se come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore.

Quando alcuno si vanterà o si terrà d’assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, dì teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch’io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole.

Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poichè questa parte non è in tuo potere.

 

Brano seguente: Arriano, Manuale di Epitteto (12)

 

 


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