Temi e protagonisti della filosofia

[Incipit] In principio era il saper fare

[Incipit] In principio era il saper fare

Giu 08

Articolo precedente: [Incipit] L’inizio singolare plurale

 

 

«Ognuno diventa sophós attraverso un altro

– in antico come oggi».

[Bacchilide, Paen. fr. 5]

 

Analisi logica, analisi chimica, whatever

 

Partiamo dal presupposto, credo condivisibile, che filosofia sia innanzitutto una parola: non una parola semplice, ma una parola composta. Le parole composte sono formate da parti del discorso inizialmente autonome, che arrivano ad unirsi insieme in un nuovo significato, che pure però mantiene un legame semantico con i suoi termini costituenti d’origine. Perciò, da un punto di vista strettamente linguistico, filosofia è un sostantivo composto, nome comune di cosa, come possono essere nomi composti ad esempio “cassaforte” o “aspirapolvere”. Tuttavia rispetto a “cassaforte” o “aspirapolvere”, filosofia mantiene una denotazione particolare, data dal suo essere nome (poi non così) comune di una “cosa” (whatever il termine “filosofia” indichi) in un senso assai problematico. Innanzitutto perché i nomi comuni di cosa composti come “cassaforte” o “aspirapolvere” sono composti da costitutivi tangibilmente concreti (“polvere”, “cassa”) o da qualità o azioni altrettanto facilmente esperibili (“forte”, “aspira”). Non altrettanto si può dire per i due costituenti di (1) filo- (2) –sofia, perlomeno non immediatamente.

Non immediatamente perché, sembrerebbe, il significato di (1) filo- (2)-sofia è avvertito come più astratto di quanto non lo siano invece “cose” in senso forte come “cassa”, “povere” o appunto “forte”. Quanto invece ci riproponiamo di fare attraverso questo contributo e il successivo, è ricondurre i costituenti del nome composto “filosofia” alla loro originaria matrice concreta, al fine di renderli comprensibili almeno tanto quanto sono comprensibili i costitutivi “cassa-” e “-polvere” e dunque capire qualcosa di più del significato originario di questo termine composto. Ma c’è anche un secondo intento. Com’è evidente, rispetto a “cassaforte” e “aspirapolvere” il termine “filosofia” è più antico, e i suoi costituenti sono più antichi ancora. Prima che qualcuno avesse denominato qualcosa “filosofia” c’era già stato qualcun altro che aveva denominato qualcosa “philía” e qualcos’altro “sophía”, e prima ancora, evidentemente, ci doveva essere stato quel “qualcosa” (whatever) che si prestasse ad essere indicato con questi due nomi comuni di “cosa” rispettivamente. Il termine “filosofia” è complesso dunque (“problematico” dicevamo) perché ci si presenta già come una sintesi, come quello che in chimica si direbbe la “sintetizzazione” di un composto, di un nuovo residuato. È evidente che per capire di che cosa è fatto quel composto e quali ne siano le proprietà si debba operare il processo inverso, cioè de-sintetizzarlo nei suoi elementi chimici di base: la philía e la sophía e studiare come questi arrivarono ad interagire nella loro reazione reciproca, come siano arrivati cioè ad un punto di composizione o di equilibrio dinamico dei materiali preesistenti. Ed è proprio sulla “preesistenza” dei materiali che il nostro secondo intento vorrebbe insistere. A forza di sentirlo ripetere, ci siamo ormai convinti che “filosofia” è un ritrovato ellenico, un prodotto occidentale. In effetti, lessicalmente e anche concettualmente “filosofia” è un’invenzione del genio greco, come si ama dire. Ma i materiali sono preesistenti almeno tanto quanto la polvere e l’aspirare sono in sé antecedenti al concetto di “aspirapolvere”.

Qui ci concentreremo sul costituente “-sophía” e sul suo contesto d’origine, un termine che si è soliti tradurre con “sapienza”, “sapere” (già, ma sapere cosa?) e che da ancora troppa manualistica viene fatta “nascere” d’amblè nelle colonie ioniche nel VI secolo a. C. – Ma quali ne furono allora i genitori, quale l’incubazione, quale la preesistenza? Vorremmo qui provare ad allargare l’orizzonte sulla scia di una recente e urgente antologia di testi a cura di Andrea Ercolani e Paolo Xella intitolata La Sapienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo antichi, riferendoci in particolare al primo, bellissimo saggio firmato da Manuela Giordano. Anticipiamo soltanto che per lo storico della filosofia il grande merito di questa raccolta è quello di essere pienamente riuscita nell’intento di relativizzare cronologicamente e spazialmente l’origine della letteratura sapienziale, e quindi, per quel che qui concerne, nell’intento di delocalizzare e retrodatare il monopolio ellenico della nascitura filo-sofia.

Se “filosofia” è amore del sapere, allora il suo inizio è innanzitutto inizio di quel sapere che fu oggetto del suo primo amore. E da qui bisogna incominciare.

 

Una saggezza straniera che viene dal mare

 

«Alien wisdom»: così si intitola il primo saggio di questa raccolta dedicata alle origini di σοφία. Questo titolo, a propria volta, è tratto da un fortunato saggio di Momigliano così intitolato (A. Momigliano, Alien Wisdom. The Limits of Hellenization, Cambridge 1975; trad. it. 1980), che già in tempi non sospetti volgeva ad “altrove” il retroterra del “miracolo” greco: dall’antico Egitto all’odierno Iran, dalle tribù dei Celti alle popolazioni giudeo-semite, “altrove” già sembrava allo storico piemontese in esilio il luogo dove far trovar residenza ad un sapere altrimenti irrelato. Analogamente e più in particolare la tesi dell’autrice, già Post-doc della Hebrew University di Gerusalemme, è che «sophía – parola che in greco significa “sapienza”, “competenza” – è parola venuta da fuori, non indoeuropea, ma portata da stranieri: una sapienza straniera che i Greci fecero propria trasformandola e rendendola più astratta» (p. 20).

L’approccio di indagine etimologica e culturale di questo concetto pre-filosofico (sulla scia di lavori quali quelli illustri e magistralissimi di Burkert, di West e di Brummer) va nel senso di un’osmosi interculturale mediterranea che, rispetto a come intesa in passato, si configura ancor più sincronica e assai meno eurocentrica. Non solo cioè in epoca arcaica il Vicino Oriente fu davvero “vicino” al lato Est della Grecia che ad esso guardava, ma anche e soprattutto lo sguardo era di rimando e di reciproco contatto. Così per la trasmissione del sapere e del sapere in sé «il viaggio di sophía riguarda… il Mediterraneo orientale nel periodo che va dal XI al VII secolo» (p. 24). Come si diceva, adottare questo modello consente di sfumare una topografia e una cronologia troppo abusata e semplicistica. La filosofia viene fatta nascere nel VI secolo a Mileto solo per un invalso eccesso di approssimazione genealogica, per una comodità storiografica di lunga data, per semplificazione convenzionale. Ma man mano che nuovi studi e nuova documentazione ci vengono fornendo ulteriori elementi, allora anche questo momento fondazionale deve essere revisionato, per lo meno nei suoi presupposti e nella sua rigidità.

La primogenitura di sophía può essere cercata allora molto prima lungo le rotte e presso gli approdi del Mar Mediterraneo. Uno spazio policentrico e concorrenziale, il cui configurarsi come traiettoria incrociata di merci e di idee mette in crisi le impostazioni mono-originative per le quali ciò che dà inizio dà significato a ciò che segue unidirezionalmente. Il tema dell’origine può essere invece pensato come un network di dipendenze, imprestiti, influenze reciproche mediate o dirette, immediate o a lunga gestazione, acquisizioni legittime o fraintendimenti, scambi di mercanzie ed equivoci di idee, commerci e ibridazioni culturali. Questo, senza eccessi, doveva già essere il Mediterraneo di tre millenni fa: una koiné pre-ellenistica [1].

Retrodatazione e decentramento del locus originis primigenio della filosofia sono conseguenze dell’intendere il pensiero razionale come patrimonio comune a diverse culture, specie nei rispettivi punti di scambio, di intersezione, di sovrapposizione. «L’immagine di un Mediterraneo interconnesso e simultaneo permette di evitare una deriva sostanzialmente “derivazionista”, comune negli studi che hanno teso ad evidenziare le influenze “orientali” sulla Grecia» (p. 25). Gli esiti più imbarazzanti di questa tendenza si ebbero verso la fine degli anni ottanta, quando M. Bernarl con il suo molto discusso Black Athena sostenne di poter trovare alla sapienza ellenica presunte ascendenze africane.

In un post precedente su questo stesso sito potevamo leggere la seguente conclusione: «allo stato attuale della ricerca storico-filosofica, non abbiamo ragione di credere che la filosofia greca derivi dall’Oriente; -una conclusione che, lungi dal chiudere la questione, lascia aperta la possibilità di continuare la ricerca». La ricerca deve essere continuata e ulteriori elementi ex oriente sono già patrimonio della comunità scientifica, ma la questione (come già in quello stesso contributo veniva riconosciuto) è malimpostata. E questo per almeno tre motivi: “Oriente” è un’indicazione tanto suggestiva quanto vaga, il (vetero)modello “derivazionista-lineare” è semplificatorio ai limiti dell’erroneo e parlare di “filosofia greca” in una ricerca così concepita risulta essere una viziosa petizione di principio. – La Giordano cita a questo proposito un brano di Giovanni Cerri, che a nostra volta condividiamo:

«La tendenza orientalizzante è a sua volta viziata da un equivoco di fondo. In fin dei conti parte anch’essa da un’opposizione netta, troppo netta, in un certo senso “dogmatica”, Grecia-Oriente, dunque Oriente-Occidente, per operare poi a senso unico, presupponendo aprioristicamente un flusso di acculturazione unidirezionale, sempre dall’Oriente all’Occidente (cioè, alla Grecia). […] Ciò per dire che le influenze culturali dovettero essere reciproche e multidirezionali fra tutti questi popoli (e tanti altri!), senza che a nessuno di essi possa essere attribuita una sorta di primogenitura, fondata sulla sola storia politica. Meglio allora parlare di un milieu culturale comune, trascendente le specificità nazionali». [G. Cerri 2007, cit. a p. 25].

Sebbene anche in questo senso tentativi inversi siano stati fatti, mappare l’origine di una materia ubiqua come la filosofia in termini topografico-localistici è una pretesa paradossale, e ancor più lo sarebbe parlare di una presunta origine nazionale quando ancora l’identità greca non esisteva, frammentata in tante póleis e distretti coloniali assai diversi e spesso in guerra fra loro. Questa pretesa deriva, credo, da una nostra distorsione formativa, ingenuamente illuministica. Le cartine geografiche che fin dall’infanzia hanno addobbato le pareti delle nostre classi e le pagine dei nostri sussidiari sono state foriere di profondi condizionamenti. Dicotomicamente divise in piante fisiche e politiche, quand’anche non storiche (come se paesaggio, storia e presenza dell’uomo sul territorio non fossero un tutt’uno) hanno finito con l’imprimerci nella percezione un’immagine spaziale fuorviante. Qui l’orografia standardizzata in toni verde-marrone, lì gli stati nazionali in vividi colori caldi. Le terre emerse intorno al Medi-terraneo (bacino, come dice il nome, in-mezzo-alle-terre) erano il soggetto in primo piano, mentre l’azzurro uniforme ne costituiva solo lo sfondo. Orbene, per l’epoca arcaica questo paradigma deve essere invertito: il Mediterrano non è il negativo fotografico di continenti in chiaro, ma è, al contrario, quanto dev’essere visto come un unico “stato-ponte”, connettivo di poli tanto distanti tra loro ed abitato da popoli che in tempi e in direzioni diverse ne hanno solcato le rotte. Il Mediterraneo è l’entità politica alla quale afferirono tutte le prime civiltà, sia autoctone che migranti – un fondale comune che dev’essere ripensato nella sua trans-nazionalità, nella sua sempre presente permeabilità di frontiere e fluidità di interconnessioni.

Certo, c’è il rischio di proiettare indebitamente in questo nuovo paradigma qualcosa del nostro mondo di oggi, globalizzato ed interconnesso, e di sicuro certi nodi della rete degli scambi di allora rimasero per secoli isolati, ma pure bisogna familiarizzarsi di più con il carattere mercantilistico ed espansionistico che doveva imperversare per le acque di un Mare Nostrum che fu innanzitutto Mare Omnium. Voler quindi applicare a questa fase storica l’idea di “frontiera” è anacronistico, specie in riferimento ad un contesto marino quale quello mediterraneo, dove «le delimitazioni sono fluide e permeabili» e «costante è il fluttuare dei confini nel tempo» (p. 26); un contesto dove peraltro per i tre continenti che vi si affacciano il controllo del “territorio” si esercitava essenzialmente nella forma politico economica della talassocrazia. – Troppo facile dire a questo punto che l’acqua è il principio di tutte le cose…

La superficie liquida e ventosa del Mediterraneo garantiva allora un’impareggiabile mobilità: mobilità di genti, mobilità di merci, mobilità di equilibri, mobilità di idee.  (Sulla via aperta da Braudel, gli studi di antichità mediterranee di Malkin, di Braccesi e di Horden-Purcell sono dei passaggi obbligati). Questo per la storia arcaica del nostro concetto deve essere ben tenuto presente. Lungo le coste, negli spazi di approdo e di scambio sorti in baie protette o accanto a foci di fiumi che garantissero acqua dolce e una risalita sicura all’interno di regni ancora inesplorati era facile assistere a convivenze insediative più o meno spontanee, più o meno forzose. L’autrice parla a questo proposito (ed in particolar riferimento all’iniziativa fenicia) di un «comunitarismo interetnico», un melting-pot ante litteram in cui la compenetrazione culturale poteva raggiungere contatti di mutua civilizzazione mai realizzatisi prima. – Non può già essere considerato questo un campo di forze fervido per lo sviluppo di una razionalità indipendente, se non almeno per la condivisione di competenze pratiche, patrimonio comune richiesto dall’expertise marinaresca?

 

L’insostenibile leggerezza della carpenteria navale

 

Ritorniamo al termine costitutivo “sophía” di cui dicevamo sopra. Tralasciando i dettagli più filologici, rilievi assai interessanti possono essere avanzati in merito alla preistoria di questo vocabolo e quindi al suo significato originario, proprio a partire dalla sua etimologia. Proviamo a compendiare le acute ricostruzioni della Giordano in merito.

La radice semantica dalla quale il vocabolo greco deriva avrebbe avuto in principio il significato di saper fare; e questo almeno in due sensi operativi. Due sensi corrispondenti (a), il primo, ad una fase più antica e pre-ellenica, rinvenibile in documentate attestazioni assiro-babilonesi, ugaritiche e punico-semitiche, e (b), il secondo, a partire dal VI sec. a. C. nel suo innesto greco per tramite fenicio.

(a) Il primo significato ha a che fare con la capacità di osservare, di saper guardare lontano – verso l’alto o comunque quanto più distante. In questo senso, designava l’abilità della vedetta desta e della sentinella dall’alto e, per estensione, l’abilità del veggente o comunque di chi sa vedere non solo lontano nello spazio ma anche di chi sa (pre)vedere lontano nel tempo – di chi, avendo visto prima, sa predire. Il puntare lo sguardo distante non fu perciò peculiarità solo della vigilanza dall’alto, ma presto anche degli astronomi/astrologi che più ancora esercitavano la capacità di saper guardare lontano osservando i segni nel cielo. La torre di guardia e l’osservatorio furono i primi luoghi di attuazione “panoptica”, avamposti presidiabili ovviamente solo da chi aveva la capacità, il tempo e lo status per potervi stare. Nel suo background extra-greco, l’ontogenesi semantica di sophía ebbe dunque a originarsi dalla capacità di supervisione e di lungimiranza in senso meta-astronomico.

(b) Il secondo significato, attestato al momento dell’inculturazione greca, ha a che fare con il saper fare dell’esperto, nella fattispecie ha a che fare con il know-how marinaresco. I passi più antichi di Esiodo e di Omero, accuratamente riportati dall’autrice, testimoniano inequivocabilmente questa accezione, quale quella di sophía (e termini dalla stessa radice) come designante un «etnosapere» empirico-pragmatico, sempre funzionale ad una pratica utile, come può essere appunto una competenza artigianale. Al suo debutto nella lingua greca, il termine σοφία, consapevolmente vergato ormai con caratteri fenici, indica la competenza del carpentiere navale, l’arte dell’armatore marittimo. Per estensione designò poi non solo chi la nave la sapeva fare, ma anche e soprattutto chi la nave la sapeva tenere e condurre: il timoniere accorto e, ancora, la vedetta capace di vedere il profilarsi di scogli, secche, maree, pericoli, pirati, tempeste in arrivo così come anche avvistamenti di approdi sicuri. Questa figura, con lo sguardo stancato dal sole abbagliante e la pelle increspata dalla salsedine amara, fu a sua insaputa l’archetipo del filosofo occidentale. Saper fare per andare lontano, sapendo orientarsi dall’alto delle stelle per incedere qui, tra i marosi e le risacche.

Quella dal quale il termine sophía deriverebbe, «si tratta di una radice dotata di una spiccata omogeneità semantica su un’area molto vasta, che indica in sintesi l’osservazione visiva con la specificità dell’osservazione da un luogo elevato» – così scrive l’autrice – «nell’ipotesi qui avanzata si suppone che il tramite naturale di tale prestito <alla lingua greca> siano stati i Fenici, e che la radice semantica /p’/ sia stata trasmessa nella connotazione nautica dell’osservazione astronomica e in generale nel senso di competenza in senso nautico» (pp. 36-37), un’ipotesi che qui condividiamo.

Quanto definiva che cosa era sophía dovette poi presto subire un processo di progressiva astrazione. Se teniamo per buona quella che sarà la tripartizione aristotelica, il corso che questa nozione prese fu a partire dalla poiesis, alla praxis (Giordano ben segnala la metafora antica della “comunità come una nave”) e solo infine alla theoria: una progressione esattamente inversa all’importanza che siamo soliti attribuire oggi alle branche della filosofia e alle sue gerarchizzazioni interne.

Anche l’ultimo saggio della raccolta, a firma di Andrea Ercolani, su La Sapienza in Grecia, si trova concorde con questa impostazione: «Il termine, basilarmente, esprime l’idea del “saper fare”: sophía è, almeno in origine, una conoscenza pratica, una conoscenza di tipo tecnico (cfr. Il. 15, 411 s., a proposito del téktōn, “falegname, carpentiere”)… <anche nel testo esiodeo> è chiamata in causa una conoscenza di tipo tecnico, precisamente quella della navigazione e delle navi. In progresso di tempo, da questa valenza concreta si origina, per facile slittamento semantico, l’idea di una conoscenza più generale, legata ai problemi esistenziali dell’individuo, per poi arrivare ad una nozione astratta» (p. 251).

La panoramica offerta si chiude con Talete «primo sophós, astronomo greco-fenicio», ideale sintesi e trait d’union finale di questo discorso. A ben leggere infatti la testimonianza di Diogene Laerzio (che costituisce proprio il frammento A 1 della raccolta-base del Diels- Kranz) ritroviamo tutti i punti toccati: le sue origini fenicie e la residenza in una colonia greca, la sua riconosciuta qualifica di “sapiente”, la sua capacità di osservazione, orientamento e previsione astronomica e, nella schematizzazione aristotelica, l’identificazione dell’elemento acqueo come principio comune a tutte le cose. «Fu probabilmente Talete, dunque, a rilanciare la parola sophía, già nota a livello popolare attraverso il tramite della navigazione, e la risemantizzò nel senso di competenza astronomica, fisica ma anche politica e (forse) morale» (p. 42).

Alla luce di queste considerazioni generali, riteniamo, rispetto alle affermazioni troppo sicure di certi storici positivisti che ipostatizzano la nascita della filosofia ad un tempo t geolocalizzato univocamente, è allora più scientifico affermare che, prima ancora che con Talete, la storia dell’amore per il sapere nacque forse nel cantiere di un armatore fenicio o in viaggio su una nave meticcia o, chissà, al suo placido approdo in un porto al tramonto.

 

 

Testo di riferimento: M. Giordano, «Alien wisdom: il viaggio di sophia», in A. Ercolani e P. Xella, La Sapienza nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo Antichi, Carocci ed., Roma, 2013, pp. 19 – 42.

 


[1] Cfr. su questo senso di interdipendenza arcaica, secondo l’autore, di matrice greco-euboica: R. L. Fox, Eroi viaggiatori, I Greci e i loro miti nell’età epica di Omero, Einaudi, Torino, 2010 [ed. orig. 2008].

 

Articolo successivo: [Incipit] Philia e inizio (1)

 

 


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