Una riflessione galileiana sul rovesciamento copernicano di Edmund Husserl
Una riflessione galileiana sul rovesciamento copernicano di Edmund Husserl
Giu 15
È risaputo che Edmund Husserl nella sua ultima opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale mette in scena il personaggio di Galileo Galilei quale interprete della insensatezza della pratica conoscitiva delle scienze.
Propriamente il fondamento paradossale e irrazionale delle scienze sarebbe il costitutivo rifiuto di interrogarsi sulle condizioni che rendono possibile lo stesso sapere scientifico, cosicché il percorso fondamentale che conduce dalla soggettività trascendentale alla costituzione di oggetto resta occultato, inconsapevole e si retroflette dando luogo al pregiudizio oggettivistico e cioè alla specularità d’una conoscenza che dall’oggetto, che esisterebbe di per sé, in un esterno che non si sa bene dove sia, viene comunicata al soggetto.
Emblematica di questa insensata aporia è la pretesa della scienza psicologica, la quale vorrebbe considerare il soggetto, che è la condizione della oggettualizzazione stessa, come un qualsiasi oggetto di conoscenza: se il soggetto trascendentale, colui che conosce, diviene una cosa allora sarebbe necessario avere un altro soggetto costitutivo di questa cosa e così all’infinito. Il trascendentale è sempre alle spalle della costituzione dell’oggetto, mai davanti.
La perdita di consapevolezza del fondamento della pratica scientifica è, per Husserl, la conseguenza derivata dal liberare la grande potenza conoscitiva della disciplina fisico-matematica operata da Galileo il quale, cosalizzando una modalità di interpretazione del reale, porrebbe in essere una presunta e indimostrabile idealità sottostante alla datità percettiva e quindi sarebbe responsabile del contemporaneo occultamento della dimensione originaria dell’esperienza; ciò rese possibile coltivare il pregiudizio d’una conoscenza vera del mondo così com’è.
Il grande errore logico, la superstizione galileiana che dominerà la cultura occidentale e che sta alla base della crisi presa in considerazione da Husserl, consisterebbe dunque nel credere che la mondità del mondo sia costituita da un’inesorabile natura della quale si possono decretare inossidabili regolarità espresse in leggi razionali ed eterne. Dimenticando che questo si verifica solo perché tutto ciò che nel mondo non manifesta sufficiente regolarità si dichiara non scientifico.
Così in carico al protoscienziato toscano vi sarebbe la conseguenza di aver sostituito al mondo «teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo» [1]. La fatidica notte d’autunno del 1609, quando Galileo puntò il suo strano occhiale al cielo, sarebbe dunque la data di nascita dell’oggettivismo, cioè dell’atteggiamento ingenuo del razionalismo scientifico che consiste nell’occultamento dei legami genetico-intenzionali che intercorrono fra le formazioni scientifiche e le operazioni costitutive dalle quali si sono originate.
Certamente, si commenta, questa figura di Galileo messa in scena da Husserl è più un personaggio che una persona; ma, si aggiunge, la scarsa attenzione alla figura storica e le imprecisioni che ne derivano, non inficiano la tesi di fondo, anzi, in un certo senso, purificandola, fanno risaltare meglio ciò che ne fa il paradigmatico protagonista della rivoluzione scientifica.
Ma bisogna pur dire che questa operazione, anche se legittima e legittimata in apparenza da una tradizione di storia della scienza [2] nel cui ambito e significato è stata racchiusa la proposta galileiana, non è per nulla innocente, cioè immune da pregiudizi. Si potrebbe chiedere a Husserl se per caso non incappi pure lui nel comune errore di ignorare la retroflessione, e cioè che ciò che è il risultato reificante del sapere scientifico così come è venuto a stabilirsi attraverso la consolidata tradizione ideologica di storia e teoria della scienza e di cui il filosofo analizza la crisi, si applica alla sua origine occultando in questo caso ‒ non Galileo, ma lui ‒ ciò che era in campo nel momento dell’operare galileiano; ciò che Husserl stesso definirebbe essere un “evento possibilizzante”; evento, cioè, da cui potevano derivare formazioni culturali diverse fra loro.
La traccia o l’intenzione che sta alla base di questa considerazione non è, ovviamente, l’esigenza del pedante che richiede una erudita esattezza storica (il problema di una fedeltà biografica potrebbe benissimo aggirarsi definendo questo Galileo husserliano come un personaggio immaginario), ma evidenziare che addebitando a Galileo ciò che è solo una delle possibili derive della sua pratica teorica, gli si addebita inequivocabilmente e in via pregiudiziale la concettualità scientifica che ne è derivata (padre della scienza moderna, si dice), ma che non è assolutamente dimostrato che fosse quella che ha mosso la sua scelta metodologico-conoscitiva e avvalorato la sua scelta copernicana. Come dire: è proprio così indiscutibile che Galileo abbia inteso porre, attraverso il suo potenziale razionalismo matematizzante, le premesse di una concezione integralmente oggettivistico-razionalistica tanto da averne addirittura esattamente prefigurato anche le illuministiche conseguenze? Quelle, per intendersi, che sfociano sempre più nel pregiudizio oggettivista che, come vedremo, non manca di affiorare da più parti nell’opera di Galilei, ma che forse, e qui sta l’interesse vero della questione, non è così determinante da dover affermare (senz’ombra di dubbio) che la stessa fondazione della scienza è stata possibile solo e unicamente nella radicale pratica di questo smemorato e insensato atteggiamento derivato dal sistematico occultamento delle sue origini dal mondo della vita [3].
La domanda che sorge allora, e che consiglia di tornare al Galileo storico come problema prettamente teoretico, è se, liberandolo dal recinto disciplinare in cui è stato imprigionato, sia possibile cogliere, proprio all’albeggiare della scienza moderna (che ancora, ricordiamolo, non era tale o non si sapeva tale), tracce della consapevole presenza di quel trascendentale di cui si presume che avrebbe dovuto, pena la sua mancata nascita, ignorare. Non esisterebbe quindi in questa prospettiva interpretativa, o perlomeno verrebbe rimessa in discussione, l’asserita necessità del peccato originale per via del quale l’attingere all’albero della conoscenza significa, di per sé, essere cacciati dal Paradiso terrestre del mondo della vita.
Ovviamente avvalorare in qualche misura questa ipotesi, metterla in gioco, è pur essa una operazione non innocente che retroflette sulla genesi della scienza e su alcune modalità del suo sviluppo un punto di vista del tutto attuale e prodotto anch’esso di quella crisi delle scienze che Husserl aveva con tanta lucidità individuato al di là del loro successo e della loro efficacia, cui seguì una larga messe di studi di epistemologia, che hanno vieppiù argomentato quanto l’autofondazione della verità scientifica, la sua autarchica sufficienza sia perlopiù un irrazionale pregiudizio, una ideologica illusione [4]. L’importante non è evitare questa retroflessione, che sarebbe un’assurdità, quanto averne consapevolezza.
Ad esempio, è strano che non si presti importanza alcuna al fatto che lo “scopritore del trascendentale” a cui lo stesso Husserl fa riferimento, pur criticandone la mancanza di radicalità argomentativa (un trascendentale che si limita al mentale e non riguarda il mondo della vita), lo sia in quanto prende le mosse da un’interrogazione circa la conoscenza scientifica e che proprio analizzandone i fondamenti Immanuel Kant provochi quella che lui stesso definisce la nuova rivoluzione copernicana: sino ad ora si è pensato che conoscere fosse andare dall’oggetto al soggetto con tutte le irrisolte e aporetiche difficoltà che ciò ha comportato, forse allora, annota il filosofo, avremo maggiore fortuna se cominciassimo a pensare ad una strada che va dal soggetto all’oggetto. In un famoso passo della prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura questo rovesciamento viene esplicitamente associato a Galilei:
Quando Galilei fece rotolare giù da un piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da lui stesso stabilito… tutti gli indagatori della natura furono colpiti da una luce… compresero che la ragione scorge soltanto ciò che essa produce secondo il suo disegno… In caso contrario difatti le osservazioni casuali, fatte senza alcun piano tracciato in precedenza, non sono affatto tenute assieme da una sola legge necessaria…
Più che il luogo del nascondimento, qui pare che sia proprio la ragione scientifica il luogo privilegiato di manifestazione del trascendentale.
Allo stesso periodo della Krisis e cioè della preparazione delle conferenze di Vienna e di Praga da cui deriverà lo scritto che rimarrà incompiuto per la morte dell’autore nel 1938, appartiene un manoscritto del 1934 tradotto in italiano nel 1991 con il titolo Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo [5]. È, a mio parere, non indifferente notare, anche per la particolare radicalità argomentativa e provocatoria che questo testo possiede, che in questo periodo Husserl era molto angosciato dalla «atmosfera culturale e politica che si era creata in Germania e che avvertiva come una minaccia mortale per la continuità della sua opera e della sua eredità filosofica» [6], a cui reagì con «un appello ansioso sulla situazione dell’Europa travolta dallo scontro tra il cattivo oggettivismo razionalista e la violenta reazione irrazionalista che lo contrastava» [7].
Il saggio in questione è una lettura in chiave fenomenologica della rivoluzione copernicana, la stessa richiamata da Kant e quella che fu levatrice della nova scienza di Galilei. Un testo, quindi, che risulta particolarmente in tema e di cui attingeremo solo alcuni spunti, quelli utili per fare alcuni sondaggi circa la possibile presenza in nuce della consapevolezza del trascendentale proprio nella centrale questione cosmologica e del nuovo mondo che venne rivelandosi agli stupefatti occhi e mente di Galilei. Premettendo che la scelta copernicana non era da lui (ancora) vissuta come una mera scelta da aula di fisica, ma che la cosmesi del mondo riguardava nel suo complesso lo stare dell’uomo sulla terra, tutt’uno con l’antropologia, la filosofia, la morale, la religione, la psicologia.
Per entrare subito in media res leggiamo dal saggio husserliano: «È sulla Terra o a Terra, a partire da lei o verso di lei, che ha luogo il movimento. La Terra stessa, nella forma originaria di rappresentazione, non si muove né è in riposo, è solo in riferimento a lei che quiete e moto hanno un senso».
E poco prima Husserl aveva scritto: «Questo “suolo” [Boden] non viene dapprima esperito come corpo; solo a un livello superiore della costituzione del mondo a partire dall’esperienza esso diventa il corpo-suolo [Boden-Körper]; con il che si sopprime la sua forma originaria di suolo. Esso diventa corpo totale: diventa cioè quel supporto di tutti i corpi…». Sullo stesso involucro che conteneva il manoscritto stenografato in data 7-9 maggio 1934 è annotato, oltre al titolo, un breve sommario dove Husserl scrisse: «L’arca originaria Terra non si muove. Ricerche fondamentali circa l’origine fenomenologica della corporeità, della spazialità, della natura nel senso primario delle scienze naturali».
Dunque si capisce bene: Husserl attacca, attraverso una radicale provocazione alla mentalità corrente, l’oggettivismo naturalistico nel suo nucleo centrale, lì da dove è iniziato tutto e risveglia, sotto nuova luce, avvalorandole, le critiche che, in nome della sensibilità umana, gli aristotelici rivolsero alla teoria copernicana. A costo di sfiorare la più incredibile hybris filosofica egli non recede quindi dall’affermare che anche se la Terra oggettivata in corpo è ritenuta in movimento, essa non perde perciò la sua centralità tolemaica di stasi assoluta, riferimento per ogni quiete e ogni moto. Questa costituzione di mondo come arca, dimora primordiale presupposto o condizione di ogni oggettivazione significa anche che persino se la vita sulla terra venisse completamente cancellata la sua verità soggettiva non verrebbe meno in quanto la cancellazione totale della coscienza dell’universo «ha senso soltanto… come cancellazione della e nella soggettività costituente».
Questo nell’oggi di Husserl (comprese le sopra ricordate condizioni sociali e politiche in cui gli toccava pensare e scrivere), nel pieno di una riflessione sulla dominante cultura scientifica che dava come scontata una visione naturalistica del mondo, ormai completamente dimentica delle operazioni spirituali presupposte su cui si basava.
Ma il copernicanesimo rappresentava questa ideologia anche ai tempi di Galileo? Non si trattava forse, allora, quando era indiscutibilmente dominante la cosmologia tolemaica, di identificare proprio in essa l’ingenua visione naturalistica del mondo che faceva tutt’uno con la metafisica aristotelica? E quindi, in questo caso, il rovesciamento copernicano non era forse la mossa necessaria a liberare la pre-datità delle esperienze costitutive che appartengono all’ego dalla gabbia dell’assoluta verità predicata nella costituzione oggettivistica del mondo geocentrico? Cosicché non si potrebbe ipotizzare che il rovesciamento tolemaico di Galileo avesse, pur nelle condizioni storiche e materiali diversissime, la stessa funzione e pregnanza teoretica del rovesciamento copernicano di Husserl? Che, cioè, come si sa, i contrari hanno la medesima ragione?
Visto in questa luce il rovesciamento della cosmologia da parte di Galileo fu, se è possibile applicarvi una misura, ancor più audace di quello husserliano, in quanto la corrispondenza fra esperienze sensibili appartenenti alla terra-arca e terra come oggetto mondo [8] era a tutti di immediata e più che millenaria evidenza. Io non avverto la terra-suolo muoversi e perciò essa è corpo cosmico in quiete. Io vedo gli astri ruotare nel cielo e perciò essendo io su un corpo in quiete loro sono corpi in moto. Quando corro sento il vento venirmi contro, se la terra ruotasse su se stessa il vento sarebbe costantemente presente al mio cammino, ecc. Se c’è un processo di occultamento della coscienza soggettiva costitutiva di mondo, questo nella visione tolemaica è ben presente in quanto il corpo mondo che costituisco in oggetto assoluto di realtà è la traduzione fedele del corpo-arca costituente, è la diretta oggettivazione attribuita a un corpo esterno delle mie sensazioni, oggettivazione immediata della coscienza costituente che quindi chiude ogni spazio di differenziazione fra costituente e costituito [9]. Si chiude cioè ogni differenziazione fra io empirico e io trascendentale. I moti o la quiete sperimentati dall’io empirico divengono allora moti o quiete assoluti: su, giù, destra, sinistra. Non v’è, in questo caso, alcuna possibilità di ragionare in termini di relatività la quale ha senso solo in relazione all’io trascendentale che, liberatosi dall’ingannevole e illusorio fondamento dell’io empirico basato su una irriflessa operazione di retroflessione, può ora porre la questione della relazione fra i corpi cosmici non più legata a un punto o a un luogo fisicamente privilegiato che sarebbe prefissato dalla illusoria naturalizzazione delle operazioni di coscienza, in quanto ogni fondamento è, per sua natura trascendentale, infondato.
Questo io trascendentale fa capolino (ovviamente nei modi in cui poteva mostrarsi a un uomo a cavallo del XVI e XVII secolo) nella celeberrima frase con la quale Galileo celebra l’opera astronomica di Copernico: «non posso trovar termine all’ammirazion mia come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità». Frase che potrebbe leggersi come l’apparire di un bagliore improvviso, che magari dura anche solo un attimo, ma che è sufficiente a mostrare uno spazio, una fessura che si apre fra la ragione e il senso. Spazio in cui è possibile insinuarsi per ipotizzare che anche la cosmologia tolemaica che appare così ‘naturale’ è solo una delle possibili figure di oggettivazione delle sensate esperienze, figura tanto più ingannevole quanto più occulta la distanza fra essa e il pre-categoriale da cui prende origine. Solo il rovesciamento copernicano, questa nuova figura cosmologica, o meglio, questa antica figura riportata alla luce della storia, con la sua ‘violenza al senso’ restituisce visibilità a questa distanza, essa è come un grimaldello che allarga la fessura grazie alla quale si può iniziare a scorgere la priorità del soggetto costituente di mondo che si manifesta proprio nella fessura apertasi tra sensate esperienze e immaginazione della ragione, fra terra-arca e terra-corpo. La coscienza copernicana, come intravista da Galileo, pare così preannunciare, anche se timidamente, quella di Husserl per il quale essa, come essere proprio «è toto coelo distinto da quello delle realtà mondane. Anziché risultare come effetto di processi naturali, la sfera dei vissuti immanenti è un essere assoluto, rispetto al quale è proprio il mondo a doversi relativizzare e giustificare» [10].
Al di là delle dispute legate a particolari interessi, lo scandalo vero per gli avversari di Galileo era proprio nell’abisso che la sua posizione aveva aperto: egli aveva un bel mascherarsi da più empirista di loro quando li invitava a osservare le nuove leggi della natura attraverso il tubo del cannocchiale o ripetendo gli esperimenti della caduta dei gravi lungo il piano inclinato, di fatto essi coglievano che il problema fondamentale consisteva nel venir meno della stretta, speculare, alleanza tra sensate esperienze e certe dimostrazioni, e con essa nel venir meno della possibilità di addivenire alla verità assoluta in sé e per sé. Era il crollo della visione finalistico-qualitativa del mondo, quella per la quale la materia aristotelica era comunque sempre pre-orientata al proprio fine e quindi era di per sé sensata. Ora, con Galileo, la materia ripiombava nel caos originario e il moto stesso era insensato: a nessun luogo tendeva e da nessun luogo proveniva. Tutto ripiombava nella pura possibilità di essere, nella sfera della infinita potenzialità e ciò che appariva in atto riproponeva il problema del legame che unisce la coscienza costituente e il suo mondo, il problema della garanzia di corrispondenza con un altrove che sempre recalcitra ad essere semplicemente un ‘costituito’, un’unione dunque nel segno di una esibita estraneità.
Aperta questa fessura non si tornò più indietro: la matematica si arrogò il diritto di immaginare il reale e sperimentò la sua straordinaria efficacia interpretativa. Che poi da questi successi sia derivata una mentalità scientifica che cosalizza, assolutizzandolo nella cosa in sé, quello che è semplicemente un metodo di lettura della realtà, non è propriamente farina del sacco di Galileo, il quale in tutta la sua opera non ha mai stabilito delle priorità ontologiche: egli s’è dibattuto, ad esempio, con un concetto di materia ambiguo, una ibridazione tra continuo matematico e struttura corpuscolare discreta e mai ha proposto figure geometriche denudate dalla loro realtà fisica, quasi fosse alla ricerca di un nuovo strato dell’essere, di una nuova dimensione ontologica refrattaria alla distinzione fra il soggettivo e l’oggettivo. Ricerca di cui non venne a capo, ma che non abbandonò mai e di cui mantenne sempre la complessità senza ridurla a un banale dualismo fra spirito e materia. Quello che molti rimproverano a Galilei come una debolezza metodologica, se non addirittura come un cosciente opportunismo dimostrativo, è, ad esempio, l’uso, quando serviva, della priorità delle sensate esperienze sulle certe dimostrazioni, salvo poi, in altri frangenti, invertire l’ordine di importanza e affermare che era la ragione a farla da padrone: confusione, si commenta da parte dei più, se non, per i più maligni, disonestà intellettuale e trucco retorico atto a vincere la partita con l’avversario di turno, ma forse, guardata sotto altra luce, questa ambiguità teoretica era, nel riconoscimento pieno della sua mancata soluzione, una grande opportunità lasciata ai successivi sviluppi d’un sapere che stava nascendo e di cui Galileo non voleva limitare la fecondità con una affrettata chiusura anticipata.
È questa, ovviamente, una ipotesi a cui si può solo accennare essendo ancora tutta da percorrere a partire proprio dal significato del rovesciamento tolemaico; ipotesi che, tanto per far presente la complessità a cui conduce, fa apparire in diversa prospettiva alcune delle sue posizioni più pregnanti e citate comunemente per avvalorare, sia da parte dei sostenitori che da parte dei detrattori, la completa e omogenea appartenenza della metodologia galileiana al successivo sviluppo della concettualità scientifica.
L’una è la sua famosa distinzione fra proprietà primarie e secondarie; l’altra è la sua scelta di scrivere non più nel latino dell’università, ma nella lingua comune, il volgare.
Per quanto riguarda la distinzione delle qualità dei corpi in primarie e secondarie va rilevato che tutta la famosa formulazione che Galileo ne fa nel Saggiatore inizia, guarda caso, con un atto di coscienza: «Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità», scrive Galileo e quel «dico» lo ripete spesso durante tutta la dissertazione in cui distingue le cosiddette qualità appartenenti all’oggetto (forma, moto, grandezza) da quelle appartenenti al soggetto (colore, sapore, suono, ecc.). Dunque, anche se non posto da lui a problema, c’è un soggetto (il dico) che viene prima ed è costitutivo della distinzione fra qualità oggettive e soggettive la quale si regge solo su questa sensazione o convinzione originaria, non fondata altrimenti. Tant’è che perché la argomentazione risulti convincente, Galileo ricorre non alla logica argomentativa, ma a una risorsa retorica e cioè ad esempio, per dimostrare che il colore non è una proprietà dell’oggetto, lo paragona per analogia al solletico che è una proprietà agita dalla piuma ma che sicuramente non le appartiene. Dimostrazione debole, più simile a una metodologia praticata dal sapere magico dell’epoca, basata sulle analogie e le somiglianze, che a un razionale discorrere rappresentato dalla logica del sillogismo. Un argomentare la cui unica forza risiede nella evidenza del presupposto “sentirsi tirare” in cui chi ‘tira’ di meno nella coscienza percettiva (il colore) entra nella convinzione per via di chi ‘tira’ di più (il solletico). Quindi questo passo solo per via di una particolare interpretazione che non pone mente ai suoi presupposti può definirsi il precursore del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa o, come altrimenti detto, il fautore del divorzio fra la conoscenza della realtà così com’è (quantitativa) e il mondo della vita (qualitativo). Poteva condurre a questo, e ciò è avvenuto, ma non era una obbligata conseguenza.
Del resto basta prestare attenzione al docente di matematica all’università di Padova che non si limita certo a dissertare dalla cattedra, ma il cui sapere è strettamente connaturato al laboratorio di cui si dota nella propria casa dove l’oggettività è figlia dell’opera delle botteghe degli artisti, dell’abilità delle mani e di pratiche costruttive specifiche [11], per rendersi conto che la stessa matematica-geometria per lui non è la struttura invisibile che starebbe sotto alla realtà costituendone la verità, così come pensava il suo collega astronomo Keplero, per il quale essa era il linguaggio con il quale Dio aveva creato il mondo, ma era una pratica di scrittura di straordinaria efficacia per le operazioni di oggettivazione. A Galileo questo bastava, non si preoccupava di emulare l’occhio di Dio a cui attribuiva, nel suo primo e importante scritto di metodologia e filosofia Historia e dimostrazioni sulle macchie solari le cui tesi saranno riprese nel Saggiatore, la facoltà di addivenire a un altro vero che non è quella verità di cui l’uomo è fatto e di cui è detentore. Per lui era fatica vana tentar l’essenza, se mai ne esiste una; in questo caso si produce solo un mondo di carta, un mondo fatto di definizioni e non ci si confronta con il problema di costituire una oggettività che non è lì, immediata, pronta a farsi cogliere, ma è frutto di pratiche, di lavoro, di modi d’uso, di un confronto sempre rinnovato con la resistenza e la estraneità della materia, nei vari aspetti già resi oggettivi, più o meno ‘lavorati’ in cui sempre la realtà si presenta e ci viene trasmessa, ricca, oltre che delle sue attuali realizzazioni, delle possibilità a cui esse sono sempre disposte, così come insegnavano i saperi raccolti nelle botteghe degli artisti e degli artigiani e la tradizione ellenistica archimedea. Allora, scrive nell’Historia, che senso avrebbe interrogarsi sull’essenza delle nuvole? Potremo certo dire che sono vapore umido, e allora desidererò sapere cosa sia il vapore e mi «sarà per avventura insegnato esser acqua per virtù del caldo attenuata», ma io allora ricercherei cosa sia l’acqua e la ritroverei come corpo fluido che scorre nei fiumi, per accorgermi che alla fine questa notizia ha la stessa consistenza conoscitiva di quella che io avevo in partenza rispetto alle nuvole e nello stesso modo «non più intendo la vera essenza della terra, o del fuoco, che della luna o del sole… Ma se vorremo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par, che sia da disperar di poter conseguirle anco nei corpi lontanissimi da noi, non meno che nei prossimi». Oltre ad unificare materia terrestre e celeste, con questa dichiarazione circa la conoscibilità delle affezioni si entra nella visione di una realtà fatta non tanto di cose già lì, finite e concluse nella loro essenza immutabile, quanto di materiali: una realtà fluida continuamente percorsa dal processo di oggettivazione. Questo spostamento tra ‘cosa’ e ‘materiale’ è ben evidente nelle pagine di Galileo dove si relativizza la presunta assolutezza delle proprietà delle cose considerate in sé e per sé; così il cerchio, essere perfettissimo, diviene imperfettissimo quando si tratta di stare fermi, e le cose piccole possono avere grande peso: un ago non sarà meno importante di un palo di ferro, l’usignolo non meno delle oche, il pepe non meno delle zucche, e così via. Dunque le ‘cose’ vengono sciolte dalla loro fissità per divenire ‘materiali’ costituiti sempre, nella loro oggettività, da una relazione originaria.
A questa prima fondamentale dichiarazione metodologica che è un’apertura di mondo totalmente differente da quella basata sulle essenze o sostanze; apertura che, potremmo dire, sposta la metafora statica riferita all’Essere dalla sfera parmenidea a quella dinamica di uno scoppio della sfera stessa, di un continuo divenire che in ogni punto o in ogni snodo prevede altre esplosioni, si affianca il fatto che proprio a partire da questo testo Galileo scelse di lasciare il latino, la lingua dei trattati scientifici, per scrivere in volgare.
Non sarà sicuramente stato estraneo a questa scelta il desiderio di pubblicità e di fama che muoveva Galileo dopo le sue straordinarie scoperte celesti divulgate nel latino del Sidereus Nuncius, ma forse si può affiancare a questo desiderio di propaganda una motivazione meno esterna e frivola e cioè la raggiunta coscienza che l’uso di una lingua comune a tutti fosse necessaria per fondare il nuovo sapere di cui il novatore voleva dare notizia. Perché se nel criterio che sovraintende alla verità oggettiva vien meno il fenomeno del rispecchiamento, e cioè di corrispondenza con un mondo di oggetti già là fuori, già fatti, così come è messo in crisi dal rifiuto del concetto di sostanza, allora l’unico criterio per poter definire qualcosa come oggettivo, se si vuole in qualche misura sfuggire al pericolo di una incontrollabile arbitrarietà, l’unico criterio possibile è quello della concordanza, e cioè del fatto che tutti ci ‘sentiamo tirare’ a riconoscere certe qualità, che tutti vediamo le stesse cose, che tutti condividiamo le medesime sensate esperienze: ciò verrà chiamato secoli più tardi intersoggettività. Galileo da tenace toscano, cercò quindi con l’adottare la lingua comune degli uomini quella solidarietà indispensabile alla costituzione d’oggetto, così come se ne andò per ogni dove col suo cannocchiale a cercare e a pretendere l’intersoggettività. Chiese a tutti di porre l’occhio al tubo, cosicché risultasse, attraverso l’accordo tra i molti sguardi, che oggettivi erano i monti della Luna, così come lo erano le fasi di Venere, Saturno tricornuto, i satelliti di Giove. Ma questo non risultava così ovvio a chi riteneva che reale fosse la sostanza delle cose, la loro essenza, e non solo e non tanto perché le osservazioni astronomiche non erano di facile pratica. Allora costoro chiedevano a Galileo quale garanzia vi fosse che quello che appariva nel tubo fosse la realtà e non una sua deformazione dovuta alle lenti, alla distanza dell’oggetto, ecc. Egli rispondeva paziente che se si osservava con il cannocchiale una nave al largo poi si poteva verificare, quando giungeva in porto, che ciò che s’era visto corrispondeva esattamente alla realtà del natante. Per analogia con questa verifica, dunque, si poteva supporre che ciò che si osservava in cielo fosse parimente reale e non illusione dello strumento. Già, gli veniva risposto, ma questa non è una dimostrazione. Simpatia, analogia, somiglianza, sono criteri irrazionali con i quali è impossibile fare scienza degli enti: questa deve basarsi su dimostrazioni rigorosamente razionali derivanti dai principi primi. In mancanza di tale dimostrazione era molto più ragionevole affermare che ciò che si vede nel tubo non corrisponde a ciò che è nel cielo. Sarebbe stato assurdo, veniva fatto notare a Galileo, anteporre al più che millenario e sontuoso edificio scientifico elevato da Aristotele e dalla cosmologia di Tolomeo, e comprovato quotidianamente dalle sensate esperienze di ognuno, un semplice tubo, la cui efficacia veritativa era basata sulla mera conferma fornita da una contingenza fattuale.
Questa fu, per volerla dire con uno slogan, una ‘guerra di mondi’ fra loro inconciliabili. Che potrebbe anche leggersi, in definitiva, seguitando a percorrere la strada ‘eretica’, diversa da quella comunemente frequentata su cui ci si è avviati a partire dai luoghi galileiani, come uno scontro fra un nascente io trascendentale e un ben insediato e maturo io antropologico. Su questa centratura antropologica, corrispondente alla centratura della Terra nella cosmologia aristotelica, Galileo scrisse pagine di graffiante ironia: come quella rivolta, per dirne una fra le innumerevoli sparse nella sua opera e che rappresentano un originale uso epistemologico dell’umorismo, a chi argomentava contro l’esistenza dei satelliti di Giove, dicendo che siccome essi non avevano, in base alla teoria astrologica, alcun influsso nella vita degli uomini, non avevano motivo di esistere e quindi erano solo allucinazioni d’un visionario o frottole d’un truffatore. L’io antropologico era quello ben insediato nella cultura del periodo, nutrito dalla dottrina delle cause finali di Aristotele per via della quale il principio primo da cui derivava la scienza del mondo era quello che ogni cosa tendeva, attraverso il movimento, al proprio fine prefissato e prestabilito dalla mente universale. Da cui era derivato, attraverso la cristianizzazione della filosofia greca, il senso comune per via del quale s’era certi che Dio avesse creato il mondo in funzione dell’uomo che doveva abitarlo, posto non per nulla al centro dell’universo. Con Galileo, si dice comunemente, il fine viene soppresso e con esso la domanda sul perché è totalmente sostituita da quella sul come una cosa è: il significato della realtà viene espulso dal sapere scientifico. A parte che allora bisognerebbe domandarsi, come Husserl fece, su quale razionalità si basi un sapere che non si preoccupa di giustificarsi, ma la mancata riposta non è, a mio parere, da mettere in conto a Galileo. Perché pure per lui la finalità rimane, solo che non è prefissata, non è più causa assoluta assegnata a una ‘cosa’ che sarebbe esistente solo al fine di soddisfare la presunzione antropologica d’un mondo creato per l’uomo. Per il nascente io conoscitivo di Galileo la finalità è il prodotto del processo di oggettivazione che l’uomo nella sua pratica conoscitiva applica ai materiali a sua disposizione i quali non sono quindi segnati da una teleologia antropologica, da qualche originario scopo da assegnare alla mente del creatore o alla natura, ma da fini che nascono via via e che si concretano nelle ‘cose’ che man mano vengono a costituirsi. Non è quindi il fine e il significato quello che si sopprime nel sapere galileiano, ma il mondo come totalità di cose mondane prefatte e che in sé apparterrebbero all’umanità. Il fine non è più scolpito nelle cose, ma è il prodotto di una relazione. Liberato da un fine prestabilito l’oggetto mondano dapprima chiuso nella sua aseità si apre alla possibilità di essere un oggetto abitato, nel senso che non è prima oggetto e poi abitato, ma che è oggetto in quanto abitato. Per dirla con una frase di Carlo Sini estratta da un suo corso universitario sulla “Materia delle cose”: «Le cose vengono incontro nel modo dell’abitare. L’oggettività è un modo dell’abitare che si riferisce a una serie di pratiche» [12].
Questo essere né oggetto né soggetto di per sé è il riverbero sulla costituzione di mondo del metodo conoscitivo di Galileo (non per nulla mai chiaramente e definitivamente esplicato), il quale è contemporaneamente induttivo e deduttivo. Ciò che prefigura il ‘mistero’ dello schematismo trascendentale di Kant o anche le ricerche sul ‘nuovo strato d’essere’ di Maurice Merleau-Ponty, il quale pare dare una autorevole voce alla incerta simultaneità galileiana, sempre in bilico fra sensate esperienze e certe dimostrazioni, cercando anche, attraverso questa strada, una via d’uscita dalla assolutizzazione della coscienza cui Husserl pareva condurre. Una tendenza idealistica che in qualche misura ostacolava il completo dispiegamento della fenomenologia che lo stesso filosofo aveva definito come ‘scienza delle cose’. Forse questa tendenza, mossa anche dall’urgenza polemica rispetto alle magnifiche sorti del progresso scientifico fu quella che ostacolò, come pregiudizio, la visione della relazionalità nella ‘cosa’ galileiana, dualisticamente relegata da Husserl nel totale oblio della coscienza e nel suo contrario, l’alienazione oggettivistica. Scrive in una nota Guido Neri nel saggio precedentemente citato che in Merleau-Ponty «[l]a concezione della realtà come prassi segnalava una dimensione non coincidente né con l’oggettività né con la soggettività, una “terza dimensione” a partire dalla quale le cose e la coscienza prendono il loro senso» [13].
Certamente in Galileo il carattere relazionale della mondità del mondo non è sempre così evidente, anzi, numerose sono le sue decise affermazioni verso una realtà fatta dalle cose in sé, da una natura inesorabile nelle sue leggi e nella sua mondana e assoluta costituzione. Sta di fatto che nella sua complessiva battaglia culturale volta a distruggere un sapere millenario divenuto diffuso senso comune, più forte e radicato di quello che, per esempio, oggi ha ognuno di noi verso la teoria evoluzionistica, il suo ragionare dovette fare i conti con un difficilissimo e faticoso percorso di pensiero, ogni volta da ricominciare in un esercizio atto a ‘far violenza ai sensi’; un percorso irto di paradossi come quelli che incontrava nel suo ambiguo ragionare sull’infinito; un percorso per lui ancora tutto da tracciare. Così il fenomenologo non avrebbe difficoltà nel far notare i numerosissimi passi in cui appare che per Galileo ciò che c’è è sempre esistito, indipendentemente dall’esistenza dell’uomo. E questo è indubitabile, ma non vieta però di ipotizzare che pure lui pensasse, in fondo, che l’unica maniera di dotare di ragionevole senso queste sue reiterate affermazioni fosse quella di ricorrere alla intersoggettività di cui fu uno dei primi fautori, e cioè che decretare l’immutabilità della realtà naturale significava tirare in ballo implicitamente il soggetto immaginando che se, per assurdo, all’epoca in cui il mondo era inabitato fosse comparso un uomo egli avrebbe visto le medesime cose che vediamo noi. Affermazione discutibile dal punto di vista della storicità della natura, la scoperta del tempo geologico risale all’incirca al secolo XVIII, ma non da quello della costituzione relazionale di oggettività.
Note
[1] Alexandre Koyré, Studi newtoniani, Torino 1972, p. 26. Husserl forse inviterebbe a fare attenzione a non equivocare sull’uomo chiamato in causa e cioè a non confondere il soggetto empirico con quello trascendentale, ma il concetto di una frattura fra mondo della vita e scienze che risalirebbe a Galilei è tesi di fondo della Krisis.
[2] Si tenga presente che quando Husserl scriveva il suo saggio l’epistemologia era ben lontana dall’esprimere quelle posizioni critiche che una larga messe di studi hanno messo in campo soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale. Si pensi agli studi controcorrente di Kuhn, che ha messo in luce quanti essenziali elementi extrascientifici siano necessari per l’apparire di una nuova teoria, o alla radicale anarchia metodologica di Feyerabend, esemplificata dal titolo stesso del suo saggio più famoso: Contro il metodo, oppure alle ipotesi di uno sviluppo evoluzionistico del sapere scientifico accampate di Enrico Bellone dove la casualità gioca un ruolo primario a dispetto di qualsivoglia razionale programmazione. Non è certo indifferente, inoltre, che tutti questi studi che contestano, chi più chi meno, l’autosufficienza veritativa del sapere scientifico e cioè il suo progredire garantito da una propria, interna, fondatezza si riferiscano, nel bene o nel male, in maniera paradigmatica a Galileo: snodo centrale della civiltà occidentale.
[3] In un certo senso avrebbe una qualche ragione Ludovico Geymonat quando scrive che Husserl nella sua radicale critica alla ragione scientifica «non ha visto la complessa e articolatissima dialettica fra il categoriale e il precategoriale perché voleva non vederla». Vedi: L. Geymonat, La “crisi delle scienze europee” secondo Husserl, in Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, VI, Il Novecento, Milano 1972, p. 40.
[4] Vedi nota precedente.
[5] Il saggio dal titolo originale Umsturz der kopernikanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation fu pubblicato negli Stati Uniti a cura di alcuni allievi nel 1940. La traduzione italiana di Guido Davide Neri è pubblicata sulla rivista “Aut Aut” n. 245, 1991, pp. 19-44.
[6] Husserl era piombato in un isolamento quasi completo, dopo la sua rottura con Heidegger, la sua forzata collocazione a riposo e le continue vessazioni dovute al regime nazionalsocialista.
[7] Citazioni tratte da Guido Davide Neri, Terra e Cielo in un manoscritto husserliano del 1934, saggio che accompagna sulla rivista “Aut Aut” n. 245, 1991 la sua traduzione del manoscritto. Il saggio sarà poi compreso nel volume Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l’arte. Scritti 1957-2001, Verona 2003, pp. 89-113.
[8] Questo duplice aspetto è ciò che, per Husserl, costituisce l’irriducibilità dello statuto della Terra a quello degli altri corpi celesti. Guido Davide Neri nel saggio sopra citato spiega che Terra-corpo (oggetto cosmico) e Terra-suolo (arca originaria) corrisponde al duplice statuto del corpo, inteso come corpo-oggetto e corpo-proprio, quest’ultimo irriducibile al primo in quanto sua trascendentale condizione di possibilità, così come la Terra-suolo non è naturalizzabile, in quanto rappresenta «la solidarietà che lega la nostra esistenza incarnata al suolo che la nutre e la sostiene» e rende così praticabile l’operazione di oggettivazione della Terra-corpo che quindi solo a questa condizione, e non ignorando il proprio fondamento costitutivo, può dirsi un pianeta come gli altri.
[9] Questa ‘immedesimazione’ è paragonabile a quella tra la fotografia a colori e la realtà: come scriveva Roland Barthes, la fotografia è un messaggio senza codice, così essa riempie la scena e non lascia spazio al ‘messaggio secondo’ e cioè allo stile e alla interpretazione ch’essa racchiude: natura e cultura si fondono e la connotazione del messaggio acquista la maschera ‘oggettiva’ della denotazione. Vedi: R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Torino 1985.
[10] G.D. Neri, op. cit.
[11] Nei 18 anni di permanenza padovana molte furono le realizzazioni tecniche di Galileo: calamite armate, trapani per fare viti, telescopi, microscopi, bussole, astrolabi, orologi, compassi geometrici-militari. Questo aspetto del fabbricare è ben colto da Stillman Drake che nella sua biografia scientifica di Galileo (Drake, Galileo. Una biografia scientifica, Bologna 1988) espone con accuratezza le pratiche che accompagnano e fondano le sue riflessioni sulle leggi di natura, anche in contrapposizione al Galileo platonico, padre del matematicismo ontologico, ipotizzato nelle riflessioni di Alexandre Koyré (Koyré, Studi galileiani, Torino 1979).
[12] Le lezioni del corso tenuto dal prof. Carlo Sini alla Università Statale di Milano anno accademico 2003-2004 sono pubblicate sul sito http://www.archiviocarlosini.it/402/. La frase è tratta dalla lezione XXI.
[13] G.D. Neri, op. cit., p. 113.