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Machiavelli e l’essenza della politica

Machiavelli e l’essenza della politica

Feb 21

Nel corso dei secoli Niccolò Machiavelli ha assunto numerosissimi volti, spesso tra loro decisamente dissonanti. Da molti ricordato come un’eminenza grigia, egli divenne per altri il simbolo del pensiero repubblicano. Fu tanto un tecnocrate per alcuni, quanto antesignano dell’ideale dell’Italia unita per altri ancora. Letture tutte in un qualche modo fondate, poiché per propria natura l’opera machiavelliana – la cui asistematicità è evidente quanto la vicendevole discordanza tra certe tesi in essa espresse – favorisce un’ininterrotta fioritura di interpretazioni tese a ricondurla ad unità, nel segno di un determinato fondamento morale, antropologico o teoretico, oppure della negazione di qualsiasi principio primo alla base di ogni singola argomentazione. Ogni affermazione del Segretario fiorentino è da lui stesso continuamente ridiscussa, in parte negata e sempre, con maestria, scoperta come frammento mai esaustivo di una rappresentazione totale dell’apparato di tecniche e passioni che compongono la politica.

Quest’ultima, si pensa comunemente, iniziò ad essere studiata scientificamente proprio da Machiavelli, il che è in buona parte vero in quanto egli la priva del legame con tutti gli aspetti morali e religiosi che in precedenza ne costituivano l’ossatura. Tuttavia ciò non avviene completamente, in primo luogo perché morale comune e religione – spesso strumentalmente, ma occasionalmente anche con ruolo quasi fondativo – continuano in Machiavelli ad operare in veste di istanze che rideterminano il corso dell’agire politico. In definitiva, però, non è forse impossibile scorgere nella sua opera quegli elementi che, essendo i più intrinsecamente costitutivi della politica, permettano di ricostruirne non certo le leggi universali – mai circoscrivibili a prescindere dai mille fattori congiunturali sviscerati da Machiavelli – ma quantomeno i principi regolativi ricorrenti che potrebbero farne intuire l’essenza.

È universalmente nota l’attribuzione al Segretario del precetto secondo cui «il fine giustifica i mezzi», da lui mai esplicitamente pronunciato nonostante in almeno due punti delle sue opere sembri farlo intravedere. Al termine del capitolo XVIII del Principe, dedicato ai modi con cui questo dovrebbe mantenere la parola data, Machiavelli scrive:

Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa.

In questo caso, l’esortazione ad ergere il risultato a fattore determinante per il giudizio sull’azione politica nasce dal fatto che è il popolo a interessarsi primariamente ai traguardi della politica e alla ‘superficie’ di questa. Leggermente diversa pare essere la questione che sottende il giudizio su Romolo, fondatore di una grande civiltà ma fratricida (capitolo IX del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio).

Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare, non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. […] E che Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa, e che quello che fece fusse per il bene comune e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere quello subito ordinato un Senato […].

Machiavelli in questo caso sembra introdurre una ragione più sostanziale al fine di esprimersi sulla condotta del sovrano di turno: il bene comune, in opposizione all’ambizione personale, come guida per l’agire politico. Il medesimo problema (cosa determina un giudizio favorevole o meno riguardo a una condotta politica?) sembra diramarsi: da una parte si ha a che fare con il giudizio pubblico – dai risvolti pratici e in cui gioca un ruolo fondamentale l’apparenza – e dall’altra con quello strettamente generale e di principio. Machiavelli non chiarisce definitivamente il rapporto tra morale e politica – il capitolo VIII del Principe, luogo idealmente deputato a ciò finisce per complicare ancora di più la questione – e anche per questo fa intravedere almeno due piani su cui si costruiscono non solo le analisi tecniche o assiologiche della politica, ma anche la politica stessa.

Al centro di essa vi è la nozione di bene comune, inteso non come armonia totale e perfetta del corpo civile – il modello medievale è completamente rifiutato da Machiavelli – ma come semplice prevalere degli interessi dei molti su quelli delle fazioni o di coloro che agiscono unicamente in vista del proprio tornaconto personale. Quel «racconciare» che discrimina tra Romolo e i sovrani non meritevoli di lode si riferisce a un’istanza aggregatrice alla base del vivere comune, che rimedia alla naturale tendenza al disordine e all’atomizzazione provocata da vari fattori, come ambizioni crescenti e corruzione. E questo è quell’aspetto che nel pensiero di Machiavelli non insiste come un puro prodotto della scienza politica; è una questione ‘di principio’, è la convinzione pre-politica secondo cui il bene consiste idealmente in qualcosa.

Ma i fatti si incaricano sempre di dimostrare l’impossibilità di ordinare, organizzare per poi immobilizzare definitivamente il corpo civile: il tema dominante delle opere machiavelliane è infatti il conflitto, onnipresente in qualunque Stato al punto che la civiltà che più ha avuto successo – l’antica Roma – dovette istituzionalizzarlo anziché cercare di eliminarlo. Entra così in gioco la politica vera e propria, quella che contempla il male particolare come strumento, quindi l’inganno, la brutalità e tutte le astuzie necessarie a gestire interessi conflittuali e istanze potenzialmente annientatrici. Essa ha sempre un carattere di reazione, poiché «sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino» (Discorsi, I, VI), e il compito del politico è quello di far prevalere, a partire dalla forza delle circostanze imposte dalla necessità e dai tempi, i mezzi e le forze più adatte a mantenere saldo il tutto a scapito di una parte. Questa è l’essenza della politica propriamente detta: misurarsi con la contingenza più immediata, che esige determinati mezzi di gestione della cosa pubblica, tenendo fermo al contempo l’orizzonte del bene comune, previa consapevolezza «che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro» (ibidem).

La politica descritta da Machiavelli non è solo completamente scevra da elementi esplicitamente utopici – «perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai» (ibidem) – ma anche alternativa a ogni progetto che più in generale intenda lasciarsi alle spalle una volta per tutte quelle manifestazioni del caratteristico conflitto che anima le attività umane (tumulti, guerre, disparità di trattamento e di condizione, ecc.), ripudiando la prospettiva dell’amaro ed eternamente incompleto aggiustamento dell’apparato civile e sociale. Eccettuata quell’esigenza di tutela del bene più generale – che conduce in concreto al mantenimento dell’integrità dello Stato – la politica di Machiavelli non esprime alcun ideale che possa prevaricare le questioni più tangibili e urgenti, e soprattutto non prescinde mai dal confronto strumentale con quegli attori politici da cui dipende la sopravvivenza della politica stessa:

Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere; questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via di nuocerti, o con beneficarli in modo che non sia ragionevole che’eglino abbiano a desiderare di mutare forma. (Discorsi, II, XXIII)

 

Bibliografia

  • Machiavelli Niccolò, Il Principe, a cura di A. Capata, Milano, Newton Compton, 2013.
  • Machiavelli Niccolò, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di G. Inglese, Milano, BUR, 2011.

 

 


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