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Querelle des femmes e rivoluzione scientifica: “non tentar l’essenza”

Querelle des femmes e rivoluzione scientifica: “non tentar l’essenza”

Gen 06

 

 

Una delle principali inchieste che attraversano il Furioso di Ludovico Ariosto è quella condotta dal paladino Rinaldo intorno alla questione femminile, o forse, sarebbe meglio precisare, intorno alla questione del maschile (il soggetto) che si confronta con il più esemplare altro da sé (l’oggetto, in questo caso del desiderio), cosicché il mondo “de i cavalieri antiqui” si presenta come una grande metafora, o una grande finzione, con l’ausilio della quale esplorare la problematicità del rapporto emblematico che fonda, definisce e legittima la prassi conoscitiva.

Sin dalla sua prima impresa, la difesa della figlia del re di Scozia Ginevra accusata di adulterio, Rinaldo mostra la sua posizione critica nei confronti di una tradizione in cui i maschi giudicano e puniscono, come fossero arbitri imparziali, gli altrui comportamenti, rimuovendo completamente il fatto che sono anch’essi parte interessata del gioco: si punisce, ma nel far ciò sparisce la consapevolezza di chi punisce. Le due strofe a rima baciata che concludono l’ottava sono, in questo, d’una solare evidenza:

Perché si de’ punir donna o biasimare,
S’ella ha con uno o due o tre commesso
Quel che l’om fa con quante n’ha appetito,
E lodato ne va, non che impunito (Furioso, IV, 66).

Non è comunque il discorso protofemminista che qui interessa considerare, quanto la maniera di cui è fatto e cioè la consapevolezza del soggetto che lo informa, che mette in chiaro le condizioni del discorso svelando ciò che esso, nella sua postura universale, in questo caso l’appellarsi dei nobili guerrieri ai sempiterni valori della fedeltà e della verginità, occulta.

E il maschio Ludovico è costantemente presente nel poema, è il motore dell’ironia che lo attraversa e che consiste appunto nel porre delle condizioni alla memoria del mitico mondo cavalleresco il quale, richiamato nella finzione, si sovrappone al presente vissuto che squarcia, con i suoi aculei, il velo ideologico d’un rammemorare puramente nostalgico.

I suoi contemporanei, pur apprezzando moltissimo le sue ottave, non colsero la loro predisposizione ironica, o colsero questa intrusione esplicita del maschio narratore per lo più come un difetto o un semplice scherzo, magari anche di sconveniente sapore libertino; intrusione che rompeva l’incanto dell’epica, la sua serietà valoriale e le sue finalità sovraindividuali, con continue deviazioni ‘comiche’ che mostravano le debolezze dei personaggi ‘eroici’, il loro cedere alle passioni, i loro errori, le loro ingenuità, il loro incorrere in situazioni incresciose.

Bisognerà attendere il Settecento, quando il cammino del soggetto, passando da Descartes a Berkeley e Hume, sta per giungere a quello trascendentale di Kant. Allora Voltaire [1] potrà comporre il poemetto La Pulcella di Orleans attingendo a piene mani alla lezione ariostesca dell’ironia della finzione con cui l’epica delle virtù fa i conti con le humaines faiblesses. In seguito, con l’avvento della rivoluzione romantica, attraverso soprattutto le opere di Schiller, di Schlegel e Schelling, l’ironico verrà appieno rivalutato: la riflessione del narratore sulle vicende narrate è ora finalmente compresa come espressione del complesso e fondamentale gioco, per nulla scontato nella sua soluzione, dell’immaginazione fra cosa rappresentata e soggetto rappresentante. Questa nuova sensibilità in lingua tedesca sarà poi, per quanto riguarda il poeta, variamente tradotta e approfondita in italiano, nell’opera critica di Vincenzo Gioberti e Francesco De Sanctis, sino ad affacciarsi al Novecento con il magistrale saggio su L’umorismo di Luigi Pirandello (1908). Traduzioni che, pur nella angusta cornice interpretativa di un ‘Ariosto della tranquillità’ [2], intuirono appieno, ragionandoci lungamente, il lato innovativo e altamente problematico della sua ironia.

L’esperienza dell’estraneità e la conseguente maturazione d’un ‘metodo’ poetico in grado di rapportarsi ad essa fu per Ariosto diretta esperienza biografica caratterizzata da un difficile e conflittuale rapporto con il padre, da un impiego di corte lontano dalle sue aspirazioni (‘e di poeta cavallar mi feo’) e, infine, da un amore ai limiti dell’impossibile per Alessandra Benucci, donna sposata di saldi e austeri costumi morali. La sorgente dell’ironia è qui: nella necessità di distrazione [3] dalla inesorabilità delle varie datità che non rappresentò, come i più intendono, una fuga dalla realtà per rifugiarsi nel mondo dei sogni, ma, bensì, un incessante sondare le possibilità che un distrarsi dal realismo ingenuo (atteggiamento poetico) offre al fine di ricongiungere ciò che si presenta come radicalmente separato. Lo stesso lavoro di revisione del Furioso, sia nei contenuti che nello stile durato sino all’ultimo giorno di vita, in diretta comunicazione con la concreta esistenza, dimostra il dipanarsi di questa ricerca di armonia che si invera solo nel suo farsi, ‘felice’ o ‘amara’ che sia [4].

Ciò detto, avendo quindi presenti le implicazioni metodologiche a cui si è accennato, si può tornare all’inchiesta di Rinaldo. Altre inchieste collaterali andrebbero qui citate dove la questione del rapporto fra cavalieri e madonne si sviluppa in una grande pluralità di voci, ma il luogo di questa comunicazione consiglia di limitarsi a seguire quello che si presenta come il filone principale e che viene al dunque sul finire del poema, allorché lo stesso Rinaldo percorre le vie d’acqua del mantovano e del ferrarese, venendo così significativamente a far coincidere i luoghi dell’inchiesta con quelli di vita del poeta [5]. Qui il paladino di Montalbano affronta la querelle riguardante la fedeltà femminile, di già messa in forse in altre parti del poema, ma, e qui sta la differenza, invece di osservarla come un problema riguardante l’altro sesso, si sofferma sul senso di tale questione assumendo quindi a problema vero non tanto il comportamento delle donne, quanto l’interrogante stesso. Più precisamente in questione vien posto il bisogno ch’egli ha di avere un’assoluta e rassicurante prova circa il suo possesso esclusivo del corpo femminile. Difatti il racconto presenta un nobile cavaliere che propone a Rinaldo la ‘prova del nappo’ consistente nel cercare di bere da una fatata coppa il cui contenuto, nel caso il malcapitato porti «il cimier di Cornovaglia», gli si spargerà tutto sul petto. Il paladino, dopo averci riflettuto rifiutò ‘di venire al paragone’: «è pura follia» si dice «voler cercare ciò che non si vuol trovare». È la follia di chi non sa stare nei termini suoi, è ‘il voler cercar oltre alla meta’, e, riassunto in estrema sintesi, ciò che si legge fra le righe dei gustosi racconti-apologhi che il poeta presenta [6], è la dimostrazione di quanto voler andare oltre il precario equilibrio di una conoscenza che tale è solo se comporta la salvaguardia dell’estraneità (differenza) di ciò che si intende conoscere, sia esiziale e stolto. Quale sia la genealogia di questa follia maschile dell’experimentum crucis, per cui conoscenza è anche possesso, Ariosto si ingegna a mostrarlo nel far giocare la propria consapevolezza nel mondo dei cavalieri antiqui; cosicché il pre-categoriale d’una pulsione sessuale prepotente e istintuale lo si ritrova sparso fra le ottave di tutta l’opera, così come l’ideologia del cavaliere-cacciatore i cui fasti erano celebrati con gran dovizia dai suoi contemporanei nelle spettacolari giostre e nelle amene delizie estensi. Ma, dovendo arrivare al segno, se il problematico rapporto fra Ludovico e Alessandra è trasmutato nella poesia in quello fra Rinaldo e le donne e se in questo emblematico rapporto il cavaliere è il soggetto e il femminile è la realtà nella sua estraneità, allora il sugo del ragionamento narrativo del poeta è che non bisogna tentar l’essenza, pena l’irreparabile perdita della cosa stessa o della possibilità della sua conoscenza.

Galileo Galilei fu un attento lettore del Furioso e nulla esclude, anzi oserei dire che è molto probabile, che oltre a leggerlo per il senso che fa, nella varietà delle sue avventure e nel meraviglioso che alletta la fantasia, lo lesse anche per il senso di cui è fatto, che è come dire che non ne fu semplicemente informato, ma anche, e ciò è ben più significativo, ne fu formato. Colse allora ciò che i suoi contemporanei non seppero scorgere: il metodo dell’ironia, lui che l’ironia l’aveva nel sangue. Già nel giovanile Dialogo di Cecco de Ronchitti scritto in dialetto pavano e con protagonisti due contadini che discutono sull’apparizione in cielo, nel 1604, di una nuova stella l’argomentazione oltre che in lingua viva, teatrale, burlesca, come piaceva ad Ariosto e a Ruzante, è dichiaratamente polemica contro chi pretenda di usare l’essenza per determinare la natura celeste di un corpo e la sua probabilità di esistenza [7]; tant’è che in questo caso i due contadini ne dichiarano la vacuità ai fini della conoscenza, affermando che la sostanza della nova, per quanto importa, potrebbe pure essere di polenta.

La scelta metodologica galileiana si precisò poi nelle riflessioni che seguirono alle grandi scoperte astronomiche, quando il telescopio, sul finire del 1609, venne volto verso la volta celeste. Ne sortì, oltre al Sidereus nuncius redatto in tutta fretta nella primavera del 1610, il primo grande testo di filosofia galileiana costituito dalle tre lettere indirizzate a Marcus Welser e poi raggruppate nella pubblicazione del 1613 sull’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e i loro accidenti [8]. Un testo complesso e ricchissimo in cui vi è in nuce ciò che Galilei poi riprenderà nel più famoso e citato Saggiatore edito nel 1624. Per quello che ci interessa prenderemo in considerazione solo l’inizio della Terza lettera come esempio di prosa scientifica dove v’è l’esplicita dichiarazione che tentar l’essenza è cosa vana e insensata. Essa appartiene a «un altro vero», da lasciare a Dio, così come anche Ariosto sosteneva, rimproverando la stolta presunzione di Adamo (Furioso, XLIII, 8). All’uomo appartiene pienamente una verità che si fa a partire dalla ‘ignoranza oggettuale’ che tanto assomiglia alla estraneità che campeggia nel racconto poetico ariostesco:

Perché o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera, ed intrinseca delle sostanze naturali, o noi vogliamo contentarci di venir in notizia di alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza l’ho per impresa non meno impossibile, e per fatica non men vana nelle prossime sostanze elementari, che nelle remotissime e celesti. E a me pare essere ugualmente ignaro della sostanza della terra che della luna; delle nubi elementari, che delle macchie del sole… E se domandando io qual sia la sostanza delle nugole mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desiderarò sapere che cosa sia il vapore, mi sarà per avventura insegnato esser acqua per virtù del caldo attenuata e in quello resoluta, ma io egualmente dubbioso di ciò che sia l’acqua, ricercandolo intenderò finalmente esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi… ma tal notizia dell’acqua è solamente più vicina, e dependente da più sensi, ma non più intrinseca di quella che io avanti avevo delle nugole…

Da notare, in questo albeggiare dell’epistemologia, la tensione fra i due estremi della necessità definitoria (socratica) e di quella narrativa. Una tensione in atto che non assume la solita tattica così accomodante e disarmante del né né (né intelligibile né sensibile), ma si basa sulla costitutiva primarietà della pratica poetica dell’articolazione in cui il racconto esperienziale ‘scivola’ nella definizione logica e viceversa. Celeberrime a questo proposito sono le pagine del Saggiatore dove si indaga su cosa sia il suono. Solo in questo luogo dell’articolazione intesa come ‘pensiero primo’, dell’intreccio empirico-trascendentale ancora non ben definito, ma di consolidata pratica, poteva giocarsi il realismo critico dell’immaginazione analogica, così spesso messo a frutto nelle ottave del Furioso, che permetteva di paragonare le macchie solari alle nuvole, unificando sotto una medesima, grande, scommessa epistemologica la terra e il cielo. Una tensione, dunque, che, invece di concludere unilateralmente nella definizione d’essenza l’inchiesta conoscitiva, così come avrebbe dovuto fare Rinaldo accettando la prova del nappo, e come facevano coloro che evocavano la quint’essenza celeste, pone una questione di equilibrio, di pratica di un rapporto dinamico, così come lo era il movimento della ironia ariostesca e così come l’aveva praticato negli antichi tempi Archimede, il maestro ‘scientifico’ di Galilei, che aveva indicato nel principio della leva, basato sullo spostamento del fulcro per ritrovare ogni volta l’equilibrio fra potenza e resistenza, l’inizio della scienza del mondo fisico.

 

Note

[1] Sono debitore per il seguente e rapido excursus sulla ricezione dell’ironia ariostesca dell’importante studio di Christian Rivoletti, Ariosto e l’ironia della finzione. Le ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando furioso in Francia, Germania e Italia, Marsilio, 2014.

[2] De Sanctis giungerà a definire la poetica ariostesca un esercizio privo di altra rilevanza se non quella di esprimere un’arte per l’arte; un semplice e acritico riflettore della crisi dei valori della sua epoca: «questo mondo, dove non vi è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo della immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica» (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Firenze 1960, p. 434).

[3] La favola di un Ariosto gran distratto (sulle nuvole) nasce dalle note dei primi biografi a lui contemporanei, i quali, non cogliendo la natura della sua ironia, addebitarono ad indifferenza il suo atteggiamento distaccato che invece, nella successiva cornice interpretativa, assumerà la pregnanza d’una postura non più pratica verso la realtà, ma prettamente teoretico-conoscitiva.

[4] Bitter harmony è il titolo di un’opera che ha il pregio di cogliere l’aspetto problematico della armonia ariostesca, come risultato per nulla garantito di uno strenuo e contrastato rapporto con le avversità dell’ambiente e della messa alla prova di un sostanziale pessimismo esistenziale. Albert Russel Ascoli, Ariosto’s bitter harmony. Crisis and evasion in the Italian Renaissance, Princeton University Press, 1987.

[5] La narrazione si svolge fra la fine del canto 42° sino all’ottava 144 del canto 43°.

[6] Essi verranno ripresi in musica, in Così fan tutte, da Mozart il quale, geniale erede dell’ironia ariostesca, conduce lo spettatore, alla fine dell’opera, a pensare che il titolo più acconcio sia Così fan tutti.

[7] La polemica del Dialogo era volta contro l’aristotelico Antonio Lorenzini.

[8] Le lettere, scritte in risposta alle tesi del gesuita Christof Scheiner, il quale rivendicava per sé anche la priorità della scoperta delle macchie solari, trattano apertamente di eliocentrismo e moto terrestre, corruttibilità e fluidità dei cieli, principio di inerzia e di relatività, nuova concezione del moto come uno stato, pieno riconoscimento della intrinseca unità di tutti i fenomeni dell’universo.

 

Bibliografia

Ludovico Ariosto, Orlando furioso, prefazione e note di Lanfranco Caretti, Einaudi, Torino 1966.

Michele Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, L.S. Olschki, Ginevra 1930-31

Christian Rivoletti, Ariosto e l’ironia della finzione. La ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando furioso in Francia, Germania e Italia, Marsilio, Venezia 2014

Voltaire, La pulcella d’Orleans, Feltrinelli, Milano 1982.

Enrico Bellone, Galileo e l’abisso, Codice Edizioni, Torino 2009. In appendice è pubblicato il Dialogo de Cecco de Ronchitti da Bruzene. In perpuosito de la Stella Nova, traduzione dal dialetto di Antonio Favaro (1891). La paternità galileiana di questo libello non è certa, ma è molto probabile che sia frutto della sua penna o, comunque, sia stato redatto con la sua convinta partecipazione.

Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Edizione nazionale delle opere di Galileo Galilei, a cura di Antonio Favaro, vol. V, Firenze 1899-1909, pp. 71-251. Dell’Istoria si trovano varie edizioni, digitalizzate in PDF nel web, dell’originale del 1613 edito dall’Accademia dei Lincei.


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