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Realismo e funzionalismo nella filosofia di Putnam (4)

Realismo e funzionalismo nella filosofia di Putnam (4)

Feb 22

Articolo precedente: Realismo e funzionalismo nella filosofia di Putnam (3)

Obiezioni al riduzionismo e al dualismo: verso una nuova teoria della mente (1)

Il concetto di funzione, comparso per la prima volta in Hilary Putnam in relazione alla macchina calcolatrice, permette al nostro pensatore di dirigere la propria meditazione dal concetto di significato al problema dei rapporti tra mente e corpo. Fino alla metà dello scorso secolo i modelli del rapporto mente-corpo che hanno dominato la discussione filosofica sono stati quello riduzionista e quello dualista.

Il riduzionismo può essere inteso come un’applicazione del cosiddetto “principio di economia”, secondo cui non bisogna aumentare, senza necessità, le entità coinvolte nella spiegazione di un fenomeno. I punti cardine sono:

  1. la mente non esiste come entità separata dal corpo;
  2. la mente può essere studiata solo attraverso fenomeni più fondamentali, come il comportamento o l’attività neuronale;
  3. i concetti usati nella psicologia tradizionale sono inadatti, troppo vaghi e persino erronei.

Il riduzionismo propone dunque di studiare la mente riducendola a un oggetto della fisica. Le leggi che descrivono il funzionamento della mente sarebbero riconducibili a leggi fisiche, quindi la mente deve essere studiata come qualsiasi altro oggetto fisico. Il bersaglio principale della teoria di Putnam è, dunque, la cosiddetta “teoria dell’identità dei tipi”, secondo cui l’unica realtà sostanziale è quella fisica, e quindi la mente non può che essere qualcosa di materiale (il cervello) e i suoi stati si identificano con particolari stati o processi neurali.

La teoria dell’identità postula che gli stati mentali sono identici a stati neurofisiologici, aventi quindi una derivazione diretta dal mondo fisico. Questa teoria materialistica della mente non solo fornisce una congrua spiegazione alternativa all’ipotesi metafisica del dualismo, ma va anche a colmare il vulnus della teoria comportamentista, in quanto può consentire l’esistenza di stati mentali interni che sono cause del comportamento.

Rispetto al comportamentismo, i teorici dell’identità non ritengono più che ammettere stati interni costituisca una minaccia per l’ontologia materialista, a condizione che tali stati siano puramente fisici, derivabili cioè da fenomeni neurofisiologici, indagabili direttamente con opportuni metodi diagnostici.

L’ipotesi proposta dalla teoria dell’identità è di tipo empirico, quindi l’unica autorità che possa legittimamente dimostrarne la verità o la falsità è la scienza. Ciò assurge a una tipologia di materialismo che si astiene dal pronunciarsi (direttamente) sulla natura della realtà, ma si caratterizza perché ritiene che reale è tutto ciò di cui la scienza ammette l’esistenza.

Se sosteniamo che le sensazioni, per esempio, abbiano caratteristiche mentali non riducibili a quelle fisiche, dovremmo anche ammettere l’esistenza di entità che non trovano posto in una spiegazione scientifica del mondo. (Smart 1959, p. 151)

Come deve essere interpretata quindi la dichiarazione di esistenza di stati mentali? Secondo il teorico dell’identità esistono enunciati su stati mentali, e tali enunciati non possono essere tradotti in enunciati su stati cerebrali. La riprova sta nel fatto che possiamo descrivere le nostre sensazioni senza sapere che esistono stati cerebrali:

Un contadino analfabeta potrebbe benissimo riuscire a parlare delle sue sensazioni senza sapere nulla dei suoi processi cerebrali, proprio come può parlare del lampo senza sapere nulla dell’elettricità. (Smart 1959, p. 269)

Analogamente è possibile affermare, senza cadere in contraddizione, che qualcuno ha uno stato mentale e simultaneamente negare che abbia uno stato cerebrale. D’altro canto, il teorico dell’identità sostiene che l’indipendenza logica fra i due tipi di enunciati non dice nulla sulla dipendenza o indipendenza ontologica tra i due tipi di oggetti a cui gli enunciati si riferiscono. Il fatto che esistano modalità di accesso, caratterizzazioni o processi differenti non esclude che si riferiscano in realtà allo stesso oggetto. Infatti, la specificità dell’ipotesi dell’identità sta proprio nel dichiarare che stati mentali e stati cerebrali sono punti di vista distinti, che convergono sullo stesso oggetto e non punti di vista distinti che convergono su oggetti distinti.

Sembrerebbe esserci un residuo intrattabile di concetti che si raggruppano intorno a quelli di coscienza, esperienza, sensazione e immagine mentale, per i quali è inevitabile chiamare in causa qualche genere di processo interno. È possibile, naturalmente, che alla fine si possa trovare un resoconto comportamentistico soddisfacente di tale residuo. Per i nostri scopi presenti, tuttavia, assumerò che questo non possa essere fatto e che gli enunciati sulla sofferenza e sul dolore, su come le cose ci appaiono, su come le udiamo e le sentiamo, su come le sogniamo o ce le raffiguriamo nell’occhio della mente, siano enunciati che si riferiscono a eventi o processi che sono in qualche senso privati o interni all’individuo di cui sono predicati. La questione che desidero sollevare è: nel fare una simile assunzione ci impegniamo inevitabilmente a sostenere una posizione dualista, per la quale sensazioni e immagini mentali formano una categoria di processi separata che sta oltre e al di là dei processi fisici e fisiologici con i quali si sa che sono correlate? Mostrerò che accettare la nozione di processo interiore non implica il dualismo e che la tesi secondo la quale la coscienza è un processo cerebrale non può essere respinta con argomentazioni logiche. (Place 1956, p. 62)

Gli attacchi critici dei teorici dell’identità erano rivolti, quindi, soprattutto contro il dualismo, il quale, a loro avviso, non risolveva il problema mente-corpo, ma si limitava a spiegare la mente con il concetto ad hoc di res cogitans.

Bibliografia

  • Place, U.T. (1956), Is consciousness a brain process?, in M. Salucci (a cura di), La teoria dell’identità. Alle origini della teoria della mente (pp. 62‐78). Milano: Mondadori Education.
  • Smart, J.J.C. (1959), Sensations and Brain Processes, in A. De Palma, G. Pareti (a cura di) (2004), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza (pp. 27-45), Bollati Boringhieri.

 

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