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“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (2)

“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (2)

Nov 06

 

Articolo precedente: «Mente e mondo» di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (1)

 

Davidson e Sellars rifiutano e si scagliano contro il Mito del Dato in quanto non credono nella possibilità di un “tribunale dell’esperienza” che vagli le nostre proposizioni e giustifichi le nostre credenze ponendosi in contrapposizione rispetto alla tesi mcdowelliana secondo cui è proprio l’idea di un’esperienza – giudice che medi il nostro pensiero responsabilizzandolo nei confronti dello stato delle cose – può e deve aver luogo. Deve aver luogo perché non possiamo pensare in un modo qualunque, poiché il pensiero è caratterizzato dal suo necessario rimandare a una giustificazione che lo fondi e, soprattutto, lo giustifichi. Proprio per questo McDowell ritiene che il pensiero è norma a se stesso. Non per questo il pensiero si deve pensare come dipendente e non spontaneo; al contrario, la sua spontaneità e la sua libertà risiedono proprio nella normatività, in quanto è proprio nell’essere soggetto a norme che il pensiero realizza la sua piena autonomia: il pensiero è unicamente vincolato alle leggi che lo determinano come tale. Lo spazio logico delle ragioni, quindi, non blocca l’intima essenza del pensiero, anzi la esprime nella sua piena forma.

Quando Kant descrive l’intelletto come facoltà della spontaneità, questo riflette la sua concezione della relazione tra ragione e libertà; la necessitazione razionale non è solo compatibile con la libertà ma è costitutiva di essa. In uno slogan, lo spazio delle ragioni è il regno della libertà.
Ma se la nostra libertà nel pensiero empirico è totale, in particolare se non è vincolata dall’esterno della sfera concettuale, può sembrare che questo minacci la stessa possibilità che i giudizi di esperienza possano essere fondati in modo da essere connessi ad una realtà esterna al pensiero. E sicuramente deve esserci una tale fondazione affinché l’esperienza sia una fonte di conoscenza e, più in generale, affinché la relazione dei giudizi empirici con l’esperienza abbia un qualche posto intellegibile nella nostra concezione. [4]

Non a caso McDowell cita Kant nella sua dissertazione, infatti il nostro autore prenderà le mosse proprio dal filosofo tedesco riuscendo anche a superare le sue tesi. Vediamo come:

In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa mai riferirsi agli oggetti, è certo che il suo modo di riferirsi immediatamente a questi oggetti – un modo a cui ogni pensiero tende come al suo mezzo – è l’intuizione. Ma l’intuizione ha luogo solo nella misura in cui ci venga dato l’oggetto; e quest’ultima cosa è possibile a sua volta, almeno per noi uomini, solo per il fatto che l’oggetto produca in qualche modo un’affezione nell’animo. La capacità di ricevere rappresentazioni (recettività), nella modalità dell’essere affetti dagli oggetti si chiama sensibilità. È dunque per mezzo della sensibilità che gli oggetti ci vengono dati, ed è solo essa che ci fornisce delle intuizioni; mentre è mediante l’intelletto che gli oggetti vengono pensati, ed è da esso che provengono i concetti. Tuttavia ogni pensiero, alla fine deve riferirsi per via immediata o per via mediata, a delle intuizioni, e quindi – in noi – alla sensibilità, perché nessun oggetto può esserci dato in un modo diverso da questo. [5]

Kant riconosce che vi è un senso in cui le sensazioni sono esclusivamente eventi immersi nel mondo, ovvero sono il modo in cui qualcosa modifica il nostro corpo. Per poter parlare di fenomeni, però, dobbiamo pensare alla sensazione come diversa dal mero evento, in quanto è una manifestazione che si propone come vera e propria testimone del mondo. La sensazione entra a far parte della sfera esperibile solo se si piega al linguaggio e alla soggettività. Dunque, solo se si fa fenomeno che si dispiega entro le forme soggettive di spazio e tempo, per essere poi posta alla luce delle categorie dell’intelletto. La sensazione, dunque, viene condotta verso lo spazio delle ragioni in quanto comprendiamo il loro manifestarsi all’interno dello spazio del conoscere; questo, però, non deve tacitare e appiattire la loro dimensione contenutistica. Kant dirà, infatti, che:

I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.

Questo passo famoso entra in contatto con l’esposizione mcdowelliana – lo stesso autore lo cita esplicitamente – proprio perché, se i pensieri fossero vuoti, privi di contenuto, non potrebbero avere la direzionalità verso il mondo che dovrebbe caratterizzarli e rendere il nostro pensiero responsabile nei confronti del mondo; le intuizioni senza i concetti sono cieche poiché non sono in grado di giustificarsi. McDowell dirà che alla spontaneità, all’intelletto e alle funzioni categoriali, deve affiancarsi la ricettività propria dell’esperire. Attività e passività non ci riconducono alla banale opposizione intelletto/sensibilità; piuttosto puntano all’appiattimento della distinzione tra forma e contenuto in quanto vi è una stessa funzione che si esercita ora attivamente ora passivamente sia sul campo intellettivo sia su quello esperibile.

McDowell supera Kant proprio nel momento in cui evidenzia come non si possa supporre che la ricettività abbia un’influenza anche solo concettualmente separabile dalla spontaneità. Non possiamo pensare alla disgiunzione tra sensibilità e dimensione concettuale.

L’idea kantiana originaria era che la conoscenza empirica deriva dalla cooperazione tra ricettività e spontaneità. Possiamo scendere dall’altalena se riusciamo a tener fisso in mente questo pensiero: il contributo che la ricettività dà a questa cooperazione non è separabile nemmeno a livello puramente concettuale. [6]

I concetti devono essere come delle lenti colorate che permeano la mondanità che ci appare a partire da essi, volendo parafrasare la “lanterninosofia” pirandelliana [7]. La sensibilità, invece, non consta di dati che debbano essere pensati, poiché è sempre già disposta nella trama ordinatrice dei nostri concetti:

Le capacità concettuali in questione sono già chiamate in causa nella ricettività. Non sono dunque sopra un materiale extraconcettuale che la sensibilità consegni loro. [8]

 

Note

[4] J. McDowell, op. cit., pag. 5.

[5] I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004; Parte I, § 1, A 19 – B 33.

[6] J. McDowell, Mente e Mondo, Einaudi, Torino 1999, pag. 9.

[7] «A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. […] E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà davvero quell’ombra fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercè dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? […] Cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? […]» (L. Pirandello, Il Fu Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1999).

[8] J. McDowell, op. cit., pag. 9.

 

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