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Linguaggio e comportamenti linguistici: tra intenzionalità e funzionalità sociale (4)

Linguaggio e comportamenti linguistici: tra intenzionalità e funzionalità sociale (4)

Mar 21

 

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Uno dei momenti più significativi della ricerca riguardante le lingue umane è il tentativo, compiuto nel Ventesimo secolo, di insegnare le lingue umane ai primati non umani. I primi esperimenti risalgono agli anni Trenta, quando una coppia di coniugi, gli Hayes, provarono ad insegnare l’inglese ad uno scimpanzé femmina, Vicki. L’esperimento sembra paradossale, quasi ingenuo: certamente la conformazione fisica e la struttura fisiologica di uno scimpanzé non può avvicinarsi alla nitidezza e completezza di quella umana, soprattutto per quello che concerne l’identificabilità dei suoni.
La specie umana ha avuto un lungo percorso evolutivo che l’ha portata ad una modificazione imponente dell’apparato fonatorio; senza questa modificazione anche per gli individui umani sarebbe stata un’impresa rendere limpida l’espressione fonetica. Nonostante questo, sembra che i due pionieri inglesi siano riusciti ad impartire qualche insegnamento allo scimpanzé: in effetti, pare che Viki sia riuscita a pronunciare alcune parole inglesi tra cui mama e cup.
Chiaramente le difficoltà per raggiungere questi risultati non sono quantificabili e ve ne sono alcune da collocare nella struttura stessa del cervello. Il cervello umano ha avuto uno sviluppo sul controllo volontario, intenzionale, che potrebbe rappresentare il più imponente discrimine rispetto alla natura degli scimpanzé.

In natura gli scimpanzé emettono delle vocalizzazioni, ma queste sono «strettamente legate alle emozioni. La produzione di un suono in assenza dell’appropriato stato emotivo sembra essere un compito praticamente impossibile per uno scimpanzé». [11]

Michael Tomasello, ne Le origini culturali della cognizione umana, apre delle nuove strade euristiche atte alla comprensione del comportamento e apprendimento dei primati non umani. Possono essere rintracciabili alcune similitudini con la specie umana; in effetti, i piccoli di scimpanzé, così come i bambini, possono essere esposti a nuove esperienze di apprendimento senza volgere lo sguardo direttamente sulle azioni dei conspecifici, ma per esempio, nel caso degli scimpanzé,

un piccolo, seguendo la madre, incontra una sorgente d’acqua e così impara dov’è l’acqua. [12]

Inoltre i piccoli scimpanzè hanno specializzazioni adattative, soprattutto emulative per riprodurre i comportamenti dei conspecifici, così come i bambini imparano dall’esempio degli adulti e riproducono per mimesi il comportamento o strategia comportamentale del dimostratore (genitore/umano; scimpanzé/adulto). La tesi di Tomasello, dunque, porta alla luce che tra noi e i nostri progenitori – essendoci un ristretto arco temporale a separarci – ci sia un legame genetico che, a livello cognitivo, potrebbe essersi ramificato e adattato nel tempo.
In effetti, a favore di questa tesi, studi ci dicono che il nostro genoma coincide per il 99% con quello degli scimpanzé. E tra i moduli e le interconnessioni possibili tra noi e il mondo delle scimmie, Tomasello individua la chiave di volta cognitiva che dovrebbe risolvere il problema evoluzionistico, la capacità di comprendere i propri conspecifici come agenti intenzionali:

La comprensione dell’altro in quanto agente intenzionale/mentale (al pari del Sé) [13]

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Note

[11] M. Mazzone, cit., pag. 34.

[12] M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, Il Mulino, Milano 1999, pag. 44.

[13] M. Tomasello, cit., pag. 21.

 

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