La cristologia filosofica di Simone Weil (5)
La cristologia filosofica di Simone Weil (5)
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3.2. L’amore di Dio
Con questo titolo sono raccolti una serie di testi (Appunti sull’Amore di Dio, Il cristianesimo e la vita dei campi, Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio, Israele e i Gentili) la cui redazione risale, si pensa, al periodo marsigliese. I temi della natura del bene e del male e dei loro rapporti risultano senz’altro al centro degli Appunti sull’Amore di Dio:
Il male non è la sofferenza né il peccato; è l’una e l’altro insieme, è una realtà comune all’una e all’altro, poiché sofferenza e peccato sono strettamente collegati: il peccato fa soffrire e la sofferenza rende l’uomo cattivo. Questa unione indissolubile di sofferenza e di peccato costituisce il male, quel male in mezzo al quale dobbiamo vivere, nostro malgrado, provando orrore per il fatto che vi siamo invischiati. Proiettiamo parte del male che è in noi sulle cose che sono oggetto della nostra attenzione e del nostro desiderio. E queste rinfrangono quel male su di noi. [1]
Bene e male sono su due livelli di realtà ontologicamente diversi. Ma possiamo trionfare sul male?
Possiamo trionfare sul male solo quando nutriamo una specie di indifferenza nei confronti della nostra contaminazione, quando riusciamo ad essere felici al solo pensiero che esiste qualcosa di puro, senza ripiegarci su noi stessi. [2]
L’uomo può liberarsi dal male attraverso il pentimento. Pentirsi infatti significa dirigere l’attenzione ad oggetti puri, poiché a contatto con la purezza il male si trasforma:
La mescolanza indissolubile della sofferenza e del peccato non può essere distrutta che da questo contatto. Grazie ad esso la sofferenza cessa di accompagnarsi al peccato e il peccato si trasforma in semplice sofferenza. Questo processo soprannaturale è ciò che noi chiamiamo pentimento. Quando ci pentiamo illuminiamo con la nostra gioia il male che portiamo in noi. [3]
L’unica cosa che può fare da contrappeso alla nostra tendenza al male è la grazia e noi non possiamo fare altro sforzo verso il bene se non quello di disporre la nostra anima a riceverla. Questo tema ricorre anche in Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio:
Il male del mondo […] è un segno della nostra distanza da Dio. Ma questa distanza è amore e come tale dev’essere amata. Non dico che si debba amare il male. Ma bisogna amare Dio attraverso il male. Quando un bambino, giocando, rompe un oggetto prezioso, la madre non è contenta di questa distruzione. Se però in seguito il figlio va lontano o muore, la madre ripenserà a quell’incidente con una tenerezza infinita e vedrà in esso soltanto una manifestazione dell’esistenza del suo bambino. In tal modo noi dobbiamo amare Dio attraverso tutte le cose buone e cattive, indistintamente. Finché lo amiamo nelle cose buone, ci illudiamo soltanto di amarlo; in realtà amiamo qualcosa di terreno a cui diamo il nome di Dio. Non dobbiamo tentare di trasformare il male in bene, cercando dei compensi o delle giustificazioni al male. Dobbiamo amare Dio attraverso il male che c’è nel mondo, unicamente perché tutto quel che avviene è reale e dietro ogni realtà si trova Dio. [4]
E allora bisogna attaccarsi a quella parte della nostra anima che vuole Dio perché Lui viene a noi quando lo fissiamo con lo sguardo. Ma non è che l’uomo debba cercare Dio, no. Deve solo rifiutarsi di amare tutto ciò che non è Lui, ed è allora che Dio verrà a lui. La fede, qui, dunque, non c’entra. Cosa dobbiamo fare?
Dobbiamo solo attendere e chiamare. Non chiamare qualcuno, dato che non sappiamo ancora se c’è qualcuno. Dobbiamo gridare che abbiamo fame e che vogliamo del pane. […] L’essenziale è sapere che si ha fame. Non è una credenza, questa: è una conoscenza assolutamente certa che non può essere oscurata che dalla menzogna. [5]
In ogni caso, la distruzione del proprio io per lasciare spazio a Dio non richiede il canale della Chiesa cattolica (e questo è il tema del saggio successivo, Israele e i Gentili). Allo stesso modo, i sacramenti costituiscono solo un veicolo simbolico della grazia e non producono un contatto diretto con Dio. Nel saggio L’amore di Dio e l’infelicità (o meglio, sventura), la filosofa esprime l’idea che ciò che è sempre possibile amare è la possibilità dell’infelicità ed è proprio questa che rende possibile il processo che ci potrebbe inchiodare al centro della Croce:
La Trinità e la croce sono i due poli del cristianesimo, le due verità essenziali: l’una gioia perfetta, l’altra perfetta infelicità […] La croce è la nostra patria. La conoscenza dell’infelicità è la chiave del cristianesimo. Ma questa conoscenza è impossibile. È impossibile conoscere l’infelicità senza averla attraversata. [6]
E tutto passa attraverso di lei:
L’adempimento dell’unico e doppio comandamento, “Ama Dio” e “Ama il tuo prossimo”, passa attraverso l’infelicità. […] Non si può dunque amare Dio se non fissando la croce. […] È innanzitutto l’infelicità che dobbiamo amare, l’infelicità dell’uomo, l’infelicità di Dio. […] Acconsentire all’esistenza dell’universo è la nostra funzione quaggiù. Dio non si accontenta di riconoscere buona la sua creazione. Egli vuole che essa stessa si riconosca come buona. […] E la funzione dell’infelicità è proprio quella di permetterci di pensare che la creazione di Dio è buona. […] L’infelicità è il segno più sicuro che Dio vuole essere amato da noi. […] Non bisogna pensare a Dio come essere […] Dio è amore e la natura è necessità, ma questa necessità diventa, grazie all’obbedienza, uno specchio dell’amore. […] L’infelicità racchiude la verità della nostra condizione. […] La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità è la croce di Cristo. […] Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nelle profondità della menzogna per sfuggire il viso dell’infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede. […] L’infelicità senza la croce è l’inferno, e Dio non ha posto l’inferno sulla terra. […] Nessuna attività può essere separata dalla croce di Cristo senza marcire interiormente o disseccarsi come un ramo tagliato. [7]
C’è una domanda che non ha assolutamente senso fare e non avrà mai una risposta: questa domanda è “Perché le cose stanno così?”. Chi la pone è ingenuo:
Chi è capace non solo di gridare ma anche di ascoltare, intende la risposta. Questa risposta è il silenzio. […] Cristo è il silenzio di Dio […] Non c’è un’armonia come il silenzio di Dio. […] Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore. E lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, poiché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio. […] La grande tentazione racchiusa nell’infelicità consiste nel fatto che l’infelice ha sempre la possibilità di soffrire di meno acconsentendo a diventare cattivo. Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo, solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. […] e se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio. [8]
Note
[1] Weil, Appunti sull’Amore di Dio, in L’amore di Dio, Borla, Torino 1968, p. 79.
[2] Weil, Ivi, p. 80.
[3] Weil, Ivi, p. 81.
[4] Weil, Ivi, p. 105.
[5] Weil, Ivi, p. 113.
[6] Weil, Ivi, p. 189.
[7] Weil, Ivi, pp. 197-203.
[8] Weil, Ivi, pp. 205-207.
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