Temi e protagonisti della filosofia

La cristologia filosofica di Simone Weil (3)

La cristologia filosofica di Simone Weil (3)

Nov 19

Articolo precedente: La cristologia filosofica di Simone Weil (2)

 

3. Le opere

La maggioranza dei lavori della filosofa, trattandosi solitamente di appunti, si sono facilmente prestati ad un’organizzazione diversificata ed hanno conosciuto un’edizione solo postuma. Nel 1947 usciva la prima raccolta parziale dei quaderni marsigliesi a cura di Gustave Thibon, sotto il titolo La pesanteur et la grâce, poi Padre Perrin nel 1949 pubblica la raccolta Attente de Dieu. Dal 1951 uscivano i Cahiers americani e londinesi e dal 1988 l’opera completa di Weil. In questa sede mi concentrerò su alcune opere in particolare che riguardano più da vicino il tema che stiamo indagando, e cioè Attesa di Dio, L’Amore di Dio e L’ombra e la grazia, ma accennerò in breve anche ad altre opere per meglio inquadrare la filosofa nel quadro della sua riflessione.

Nell’opera giovanile Scienza e percezione in Cartesio, la filosofa intende mostrare che la scienza è un mero prolungamento dell’esperienza, e dunque una dimensione teorica della percezione. Ciò che le preme è l’esigenza di cogliere il legame tra percezione, scienza e lavoro. Ella rifiuta l’argomento cartesiano del cogito, perché ciò che noi crediamo costituire la nostra identità personale non è che un insieme di vissuti psicologici. Inoltre è difficile parlare della realtà in termini oggettivi, perché si mescola continuamente con i nostri atti percettivi e per questo motivo non riusciamo a coglierla come esterna a noi: è il nostro corpo che ci dà una mappa del mondo attorno a noi. E la nostra immaginazione è fallace. Dunque rischieremmo di perdere la nostra identità se il lavoro non si ponesse come mediazione necessaria tra noi e il mondo. Non solo, ma il lavoro si pone anche come fondamento della morale.

In Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la cui redazione risale al 1934, si ritrova il problema della libertà e dei limiti che accompagnano ogni tentativo di sottrarsi ai condizionamenti della natura e della società. La rivoluzione marxista è l’applicazione negativa di un’idea di libertà astratta che trascura il ruolo delle costrizioni necessarie che derivano dall’ambiente naturale, dai rapporti umani, dal lavoro. L’opposizione servitù-libertà sono i poli ideali in mezzo ai quali si dibatte l’uomo che, come un pendolo, oscilla tra i due sotto la spinta del caso, il quale non si dispiega liberamente nella storia. Da una parte quest’ultimo spinge il divenire sociale verso l’incoerenza, dall’altra volontà e condizioni di esistenza lo spingono verso forme dotate di regole determinate. L’oppressione ne è l’esito. E diventa anche una categoria esistenziale dell’uomo, un suo modo di trovarsi nel tempo della storia.

In L’Iliade ovvero il poema della forza, che probabilmente risale al 1939, si fa strada l’idea che l’azione libera sia una pura illusione e che il credere in questa fallacia sia fonte di violenze e conflitti. Si delinea poi la convinzione che solo vivendo la miseria umana e l’amore per gli oppressi sia possibile accettare la necessità della nostra esistenza, che assume i connotati della forza. Lo stato ontologico dell’uomo oscilla tra la morte biologica e la soggezione alla necessità cosmica e l’unica possibilità reale di giustizia e morte è la sventura. Chi vive la sventura riesce a cogliere il senso negativo della storia umana, cioè la necessaria subordinazione dell’uomo alla forza. La sventura diventa uno status ontologico umano, ma offre all’uomo la via per raggiungere e scorgere la verità. Attraverso la sventura radicale, nell’uomo nasce un sentimento di amore per gli altri uomini e di giustizia che altrimenti rimarrebbe solo allo stato latente. Ma è indispensabile che la sventura venga accettata consapevolmente, perché proprio dalla consapevolezza della mancanza di libertà e di un destino negativo ogni soggetto umano trae il senso della propria vita e progetta cioè la propria morte nella propria vita per accedere alla verità. Lungo questo percorso interpretativo la Weil si avvia sempre di più verso un orizzonte filosofico.

Con il titolo Intuizioni precristiane, padre Joseph-Marie Perrin ha raccolto alcuni scritti della Weil che vanno dal 1939 al 1942. In essi le tematiche che abbiamo già visto si colorano marcatamente di una sfumatura religiosa. La tesi di fondo è che si dà un unico asse di continuità spirituale dall’Egitto preistorico fino al cristianesimo, che si configura non come una religione “chiusa”, ma aperta a nuove forme di lettura. Ed il pensiero platonico, pitagorico, eracliteo diventano la lente attraverso cui esso viene reinterpretato. La prima sezione porta il titolo: “Ricerca dell’uomo da parte di Dio”, poiché la filosofa comincia la sua analisi dicendo che nel Vangelo non v’è alcun luogo nel quale sia l’uomo a cercare Dio, ma è sempre Cristo a cercare gli uomini, dato che la realtà divina sfugge sempre alla comprensione del credente. Dio si specchia nel mondo e gioca all’uomo il tranello della bellezza mondana, in cui l’anima umana cade senza accorgersene [1], irretita, non potendo più esimersi al desiderio di trascendenza che gli suscita. Inoltre, secondo la filosofa, il Dio rappresentato dalla letteratura e filosofia antica non può che essere sempre lo stesso Dio, colto sotto cornici diversificate.

Ora il concetto di “forza”, pesanteur, è colto in un’accezione ancora diversa e diventa una sorta di attrazione verso il basso che ostacola il desiderio verso Dio, e perciò è necessario trovare una zona vergine dove non operi la forza, per sollecitare una tendenza contraria che, una volta attivata, metta l’uomo in equilibrio, in grado cioè di decidere del senso della propria esistenza. L’unico antidoto alla pesanteur, l’unica zona non toccata che essa non può e non riesce a raggiungere, è la zona dove vive l’amore, inteso come relazione compassionevole verso tutti coloro che soggiacciono al vincolo della forza. Ed in questa prospettiva, la Weil rilegge Platone in chiave originale, perché ritrova in lui l’idea dell’amore come dote etica innata grazie alla quale l’uomo può raggiungere Dio non in virtù di una presunta somiglianza, perché tra essi esiste una differenza ontologica che non può essere colmata in alcun modo, ma attraverso la figura del Cristo, mediatore indispensabile e modello etico tra Dio e l’uomo: da una parte possiede i caratteri indispensabili dell’uomo, e dall’altra le proprietà fondamentali di Dio, in un’analogia con il concetto di “media proporzionale”, preso a prestito dai pitagorici, il cui significato allora diventa il seguente: il rapporto che c’è tra Cristo e il Padre è lo stesso di quello che intercorre tra Cristo e l’uomo, sebbene questa identità di rapporti non sia letteralmente possibile. Ma, imitando il Cristo, il soggetto opera una sintesi tra condizione umana e vocazione alla trascendenza. In questi termini Dio diventa al tempo stesso personale e impersonale: l’impersonalità riferita al Padre, la personalità al Figlio. Pertanto, perché l’uomo possa comprendere il significato del divino, deve liberarsi della propria modalità di vedere il mondo, negando il proprio io e ponendo Cristo a principio del proprio agire morale, rinunciando cioè a far di sé il metro del proprio agire. La Weil, non a caso, fa poi riferimento alla nozione di “notte oscura” di San Giovanni della Croce, condizione estatica di abbandono della realtà e di proiezione nella dimensione partecipativa di Dio. Essere liberi equivale ad acconsentire alla necessità, poiché in essa si manifesta la mediazione di Dio. Sembra un’evidente contraddizione, ma per Weil “scegliere” viene a significare una negazione della scelta stessa, a favore di una necessità che priva l’uomo di ogni decisione autonoma. L’adeguarci alla necessità ci appare assurdo quando dietro di essa scorgiamo la grazia, che non a tutti è dato di ricevere [2]. Per questo motivo è necessario lasciar fare a Dio.

 

Note

[1] Cfr. Zani M., Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994, pp. 77-78.
[2] Cfr. Zani M., cit., p.90.

 

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