La cristologia filosofica di Simone Weil (4)
La cristologia filosofica di Simone Weil (4)
Dic 05Articolo precedente: La cristologia filosofica di Simone Weil (3)
3.1. Attesa di Dio
La prima opera che prendiamo in considerazione raccoglie testi weiliani redatti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942 e curati da padre Joseph-Marie Perrin, anche destinatario di una serie di lettere personali, incluse nella prima parte, in cui Simone vuole spiegare le ragioni della distanza che la separa dal cattolicesimo. Per Simone il rapporto con Cristo è diretto ed esclude la mediazione ecclesiastica.
A partire dal Genesi, la Weil rifiuta il concetto di creazione. Il testo-chiave è per lei il Prologo di Giovanni: il Logos, che era in principio, si è fatto carne, ha posto la sua dimora tra gli uomini, ovvero nel dolore. Nessun ruolo privilegiato spetta alla storia biblica. In particolar modo, si avverte la contraddizione tra una comunità fondata su un dogma e l’universalità richiesta dalla ragione e dall’amore per la verità. Dio parla nel silenzio, nel segreto, all’anima singola, non alle comunità, secondo Weil. Proprio per questo motivo Simone rifiutò quel battesimo e quell’inserimento nella Chiesa che, pure, le veniva sostanzialmente offerto o concesso. Voleva vivere fino in fondo la prospettiva universalistica che il cristianesimo vero propone, non accettando la parzialità di un tipo di visione, ma cogliere la verità presente in tutte le culture, attribuendo alle Scritture un valore relativo. Weil costruisce la propria fede sul desiderio della verità [1] e rifiuta il battesimo perché così facendo abbandonerebbe i suoi sentimenti riguardo alle religioni non cristiane e ad Israele. Un tratto che accomuna la Weil a Nietzsche è l’interpretazione della storia dell’Occidente come scontro epocale tra la grecità e il giudaismo, la prima connotata positivamente, il secondo no. A differenza del filosofo tedesco, però, la Weil interpreta la romanità negativamente, ponendola tutta quanta sul versante giudaico. Israele e Roma sono infatti per lei le potenze, culturali prima che politico-militari, che incarnano l’adorazione della forza. Il Dio di Israele è un Dio della potenza, è il Dio della forza. La Weil legge nella Bibbia l’esaltazione della forza, ovvero del demonio [2], che non ha nulla a che fare con Cristo. Se di “popolo eletto” si deve parlare, allora si tratta di un popolo eletto per l’accecamento, eletto per essere il boia di Cristo, eletto per far valere la violenza della propria forza assoggettante. Avendo rifiutato il Dio-giustizia degli egiziani, gli ebrei ebbero il Dio di cui si erano dimostrati degni: un Dio carnale e collettivo, e la maledizione di Israele pesa anche sulla cristianità.
Al contrario, dalla grecità viene quanto di puro si trovi nel cristianesimo: il senso della miseria umana, la non adorazione della forza, la concezione di Dio buono e misericordioso. In altre parole, dalla Grecia viene la mistica, il rapporto profondo tra Dio e l’anima del singolo, mentre da Israele, attraverso Roma e poi la Chiesa romana che ne ha preso l’eredità, viene il cristianesimo inteso come “idolatria sociale”, quello dell’ “extra ecclesia nulla salus” [3]. In parallelo con Nietzsche, la Weil vede in Israele il reale responsabile dell’alienazione della nostra civiltà, che pone al centro l’utilitarismo, la forza, al posto della nobiltà di spirito, della generosità e del distacco. Israele, dunque, è il corruttore supremo del cristianesimo che, per essere compreso davvero nei suoi più veri ed intimi caratteri, deve necessariamente essere ricondotte alla “fonte greca”. A sua volta, la grecità viene vista dalla Weil come sintetizzatrice delle tradizioni religiose di tutto il mondo mediterraneo. In questo senso, Simone è incline a vedere “figure” di Cristo anche in altre religioni e tradizioni, poiché a suo avviso il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezioni, essendo “cattolico”, termine che nella sua accezione greca designa il concetto di “universale”:
Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio, perché altrimenti sarebbero prive di esistenza […]. Dal momento che il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto, considero legittimo da parte mia essere membro della Chiesa di diritto e non di fatto, all’occorrenza per tutta la vita e non soltanto per un periodo. [4]
Ma è nella sfera del “qui ed ora” che sussistono le condizioni favorevoli alla venuta di Dio nell’anima, e tra esse il malheur è la più promettente. Il termine si può tradurre con “sventura” ed è una condizione che investe tutta la storia umana e, come l’oppressione, contiene qualcosa di misterioso e di inesplicabile, che è tuttavia anche lo stato attraverso il quale si manifesta la misericordia di Dio:
La misericordia di Dio si manifesta nella sventura quanto nella gioia, a pari titolo, e forse anche di più, giacché in questa forma non ha equivalente umano. La misericordia dell’uomo appare soltanto nel dono della gioia, oppure allorché si infligge un dolore in vista di effetti esteriori, guarigione del corpo o educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della sventura che testimoniano la misericordia divina. Nel caso di una vera sventura gli effetti esteriori sono quasi sempre cattivi. Quando li si vuole dissimulare si mente. La misericordia di Dio risplende invece nella sventura stessa. E proprio nel fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce con il toccare qualcosa che non è più la sventura né è la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso di Dio. [5]
Il dubbio appare però quando la sventura colpisce gli altri…
In una sola circostanza non so davvero più niente di questa certezza: quando vengo a contatto con la sventura altrui. Anche, e forse a maggior ragione, se si tratta della sventura di coloro che mi sono indifferenti o sconosciuti, compresi quelli dei secoli più remoti. Questo contatto mi procura un male così atroce, strazia da parte a parte la mia anima a tal punto che per qualche tempo l’amore di Dio mi diventa quasi impossibile. [6]
La differenza, dunque, tra oppressione e malheur consiste nel fatto che questa è mediatrice tra Dio e l’uomo. Purtroppo essa opera in modo paradossale e, tuttavia, apre a Dio: costituisce cioè “una forma di apprendistato della necessità e di preparazione all’obbedienza senza riserve che Dio richiede all’uomo” [7]. Ancora una volta, esempio lampante è la crocifissione, il cui dolore esprime l’impossibilità da parte dell’uomo di colmare questa distanza. Però,
Se si va senza smettere di amare fino al fondo stesso della sventura, fino al punto di gridare: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si può rimanere in questo punto senza smettere di amare, vi si trova infine qualcosa che non è più il dolore né la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, non sensibile, della gioia e del dolore, ovvero il puro amore di Dio. [8]
Per amore degli uomini, Cristo ha accettato di morire in croce, ed ora colui che sente il desiderio di Dio non ha altra strada che adottare l’esempio etico di Cristo e consentire alla necessità nella veste in cui si presenta, cioè quella della sventura. Di seguito la Weil dedica molte pagine a trattare i diversi tipi di amore, ognuno dei quali non è che una manifestazione dell’amore di Dio nel momento della creazione, un amore, dunque, “indiretto o implicito” [9], che ha solo tre oggetti: la bellezza del mondo, le cerimonie religiose e il prossimo. Per quanto riguarda quest’ultimo, si configura come un rapporto di solidarietà completa verso gli altri, soprattutto se sfortunati, perché ha il potere di restituire dignità a chi è stato annientato dalla sventura. E questa, in ogni caso, è un segno della generosità di Dio:
Accade – benché assai di rado – che per pura generosità un uomo si astenga dal comandare là dove ne ha il potere. Quel che è possibile all’uomo è possibile a Dio. […] Lo spettacolo di questo mondo offre una prova ancora più sicura. Poiché quaggiù il bene puro non si trova da nessuna parte, o Dio non è onnipotente, o non è assolutamente buono, o non comanda ovunque ne avrebbe il potere. Pertanto l’esistenza del male in questo mondo, lungi dall’essere una prova contro la realtà di Dio, è ciò che ce la svela nella sua verità. [10]
Attraverso lo slancio d’amore, l’uomo imita l’atto di amore di Dio nel momento della creazione: l’individuo deve lasciare una parte di sé, la propria soggettività, così come Dio ha rinunciato ad una parte di sé per dare origine al mondo:
La Creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritrarsi, un atto di rinuncia. Dio insieme a tutte le creature è meno di Dio da solo. Egli ha accettato questa diminuzione. Ha svuotato di sé una parte dell’essere. Egli si è svuotato […] e attraverso l’atto creatore Egli ha negato se stesso, così come il Cristo ha prescritto a noi di negare se stessi. Dio si è negato in nostro favore per dare a noi la possibilità di negarci a nostra volta per Lui. [11]
Ritroviamo qui un tema mistico: l’esigenza di negare se stessi per approssimarsi alla verità:
Mediante questa negazione di sé si diventa capaci, sull’esempio di Dio, di affermare un altro essere con un’affermazione creatrice. Ci si offre come riscatto per l’altro. È un atto di redenzione. [12]
E ancora:
Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima. Un simile consenso è l’amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l’ordine del mondo, ovvero – che poi è la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo. [13]
Solo l’uomo che si sottrae al proprio io può riuscire nell’intento di avere un contatto con Dio, visto che, in definitiva:
Il contatto con Dio è l’unico sacramento. [14]
Ed è ora che si può comprendere che la sventura non è un procedimento pedagogico di Dio:
[…] è Dio che attraversa l’universo e giunge fino a noi. […] Noi abbiamo la facoltà di acconsentire ad accoglierlo o rifiutare. Se restiamo sordi, Dio ritorna più volte […] Se acconsentiamo, Dio getta in noi un seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare – e noi anche – se non attendere. […] Noi possiamo solo acconsentire a perdere i nostri sentimenti per lasciare nella nostra anima un varco a quell’amore. In questo consiste la negazione di se stessi. Noi siamo creati unicamente per acconsentirvi [15]
ma diventa
… una meraviglia della tecnica divina. È un dispositivo semplice ed ingegnoso che riesce a infiggere nell’anima di una creatura finita quell’immensa forza cieca, bruta e fredda. La distanza infinita che separa Dio dalla creatura converge tutt’intera in un unico punto per trafiggere un’anima al suo centro. […] Chi perseveri nel mantenere orientata la propria anima verso Dio mentre un chiodo la trafigge si trova inchiodato sul centro stesso dell’universo. È il vero centro […] quel chiodo ha aperto un varco nella creazione bucando lo spessore dello schermo che separa l’anima da Dio. Grazie a questa dimensione meravigliosa l’anima, senza lasciare il luogo e l’istante in cui si trova il corpo al quale è legata, può attraversare la totalità dello spazio e del tempo e giungere al cospetto stesso di Dio. L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce [16]
Note
[1] Cfr. Sala Maria Concetta, Il promontorio dell’anima, p. XIII, in: Simone Weil, Attesa di Dio, cit.
[2] Cfr. Vannini, cit., p. 957.
[3] Cfr. Vannini, cit., p. 958.
[4] Weil, Lettera IV, L’autobiografia spirituale, in Attesa di Dio, cit., p. 36.
[5] Weil, Lettera VI, La fede implicita, in Attesa di Dio, cit., p. 49.
[6] Weil, Ivi, p. 51.
[7] Zani M., cit. p. 99.
[8] Weil, Appendice alle lettere, in cit., p. 70.
[9] Weil, Forme dell’amore implicito di Dio, in cit., p. 99.
[10] Weil, Ivi, p. 106.
[11] Weil, Ivi, pp. 106-107.
[12] Weil, Ivi, p. 108.
[13] Weil, Ivi, pp. 119-120.
[14] Weil, Ivi, p. 169.
[15] Weil, Ivi, pp. 186-187.
[16] Weil, Ivi, pp. 188-189.
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