Temi e protagonisti della filosofia

Intervista ad Antonio Di Mauro sui compiti della filosofia contemporanea

Intervista ad Antonio Di Mauro sui compiti della filosofia contemporanea

Mag 11

 

 

Presentazione dell’intervistato: Mi chiamo Antonio Di Mauro, sono nato a Milano nel 1966 e mi sono laureato in filosofia nel 1992 presso l’università statale della mia città natale. Ho conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia della politica presso l’università di Pisa nel 1998. Sono stato cultore della materia e ho tenuto seminari in Storia delle dottrine politiche e Teoria e storia della storiografia presso la statale di Milano, ove ho insegnato quest’ultima disciplina come docente a contratto per due anni accademici.
Ho pubblicato diversi articoli filosofici e storici su riviste specialistiche e sono autore di due monografie: Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce (Franco Angeli, 2001) e Libertà e riforma religiosa in Raffaello Lambruschini (Franco Angeli, 2004). Gli articoli filosofici che ho redatto dal 2010, scevri di finalità accademiche, sono stati tutti pubblicati sul blog www.antoniodimauro.net, che ho varato al principio del 2014.
Non mi identifico con presunte scuole e ancor meno con le conventicole. Sono persuaso che l’astratto spirito di sistema e l’ostentazione di tecnicismi e formule, in filosofia, non sempre sono indizio di intima coerenza e profondità di pensiero. Ragion per cui amo cercare la schietta riflessione filosofica dove meno ti aspetteresti di trovarla: anche nei classici della storiografia e negli scrittori politici, negli etnologi e negli storici della religione e del mito, nei classici della psicologia e della psichiatria.
La mia formazione si è compiuta prevalentemente extra moenia — al di fuori, cioè, del recinto universitario e degli autori e temi che in esso mi erano stati proposti. Giorgio Bassani, l’autore del Giardino dei Finzi Contini e di altre opere fondamentali della letteratura italiana contemporanea, ebbe a dire una volta: «io credo di essere l’unico scrittore del Novecento per il quale l’esperienza idealistica è il fatto assolutamente centrale della propria formazione». Nel mio piccolo posso dire di me la stessa cosa, se mi rapporto agli studiosi di filosofia della mia generazione, i quali si sono invece nutriti prevalentemente, se non esclusivamente, di fenomenologia, di ermeneutica, di filosofia analitica, di epistemologia e di logica formale. Alla fondamentale “esperienza” idealistica e dialettica, storicistica e liberale (negletta dalle facoltà di filosofia italiane), e ai suoi estremi sviluppi nel senso del problematicismo e dell’ipotetismo e al severo concetto della filosofia come metodologia della storiografia e delle scienze, si dovrà pur tornare con spirito critico e senza preclusioni verso gli apporti derivanti da altre esperienze e tradizioni, quando avranno fatto il loro tempo molte tendenze filosofiche e culturali cui oggi si attribuisce portata addirittura epocale.
Gli studenti che hanno assistito alle mie lezioni (mi riferisco in particolare al biennio in cui tenni la docenza di Teoria e storia della storiografia) provenivano soprattutto da due distinti corsi di laurea: filosofia e scienze storiche. Ai primi ho tentato di insegnare la diffidenza verso la filosofia dei “pastori dell’Essere”, ieratica e vuota. Ai secondi ho cercato di mostrare che il pensiero storico e critico non può esser confuso con l’esplorazione inintelligente dei documenti che giacciono negli archivi e che gli storici senza talento aspirano a trasferire di peso nelle loro pubblicazioni.
Il mio dialogo con studenti e studiosi prosegue oggi soprattutto grazie al mio blog e alle reazioni che esso suscita nei lettori, come testimoniano le mail che ricevo quotidianamente. Ringrazio FilosofiaBlog per l’ospitalità offertami e l’amico Tudor Petcu per avermi proposto le domande che compongono l’intervista che segue: spero che le mie risposte concorrano ad alimentare un dibattito senza dogmi sulla filosofia e il suo significato al giorno d’oggi.

Antonio Di Mauro

 

Introduzione dell’intervistatore: Che cos’è la filosofia? Oppure potremmo domandare: che cosa potrebbe essere oggi la filosofia? Questa è la domanda più difficile ma anche sensibile che può mettere alla prova la coscienza filosofica ai nostri giorni, prendendo in considerazione il fatto che viviamo in una società pragmatica per cui i valori spirituali o quelli del pensiero non sono più tanto importanti. Possiamo dire da una parte che la società di oggi, la cosiddetta società postmoderna, ha optato per una visione lontana dai valori della ragione classica che nei secoli precedenti fu la caratteristica della filosofia. Allora, se questa è davvero la situazione della filosofia contemporanea, dovremmo dire che una tale filosofia si basa su una spiritualità nichilista che uccide in qualche modo la ragione per lasciare spazio solo al decostruttivisimo?
Dall’altra parte, per quel che si sa, la scienza e la tecnologia hanno conosciuto un certo sviluppo nell’ultimo secolo e la filosofia è stata estromessa dal campo della conoscenza e non ha più avuto una forza evocatrice come ebbe in passato. Non è facile spiegare una tale situazione, la debolezza della filosofia contemporanea di fronte alla scienza, ma questo dialogo ha tentato, per quanto è stato possibile, di rispondere a una domanda essenziale: come potrebbe la filosofia diventare di nuovo la regina delle scienze?
Inoltre, un altro soggetto importante di questa intervista, che riguarda senz’altro la filosofia, è stato il tentativo di trovare e analizzare il rapporto tra filosofia e religione e, non ultimo, il modo in cui la filosofia contemporanea potrebbe o dovrebbe spiegare l’esistenza di Dio. In altre parole, una coscienza davvero filosofica, anche quella postmoderna, ha la responsabilità di interrogarsi sull’esistenza di Dio e sugli argomenti ontologici della sua esistenza, per ritrovare la dimensione spirituale perduta.

Tudor Petcu

 

D: Qual è l’importanza che la filosofia può avere ai nostri giorni e come la società contemporanea dovrebbe accogliere la filosofia?

R: L’importanza della filosofia nel nostro tempo è immutata, per la semplice ragione che la filosofia — come io la concepisco — non è se non l’umano pensiero, quello che è nelle teste di tutti noi, sia pure reso più perspicace poiché depurato dei preconcetti correnti e divenuto consapevole delle sue origini storiche e altresì dei suoi limiti. Detto diversamente, l’esercizio filosofico si manifesta come approfondimento o dispiegamento della ragione naturale, ancorché culturalmente condizionata. Ecco perché fra la filosofia e le ulteriori forme di produzione intellettuale — specialmente le scienze naturali e umLane e la storiografia nelle sue varie forme speciali — vi è un nesso strettissimo, che non dovrebbe mai venir meno. La filosofia vive e prospera laddove si esercita la riflessione critica intorno al fondamento e agli scopi delle scienze, dell’indagine storica, dell’arte, della religione, dell’economia, come di qualsiasi altra branca del sapere e dell’agire. Non riusciremmo a comprendere nemmeno una riga di Platone o di Aristotele, di Kant o di Hegel, e di qualsiasi altro filosofo autentico, se non prendessimo in considerazione quelli che furono nel loro tempo i problemi sociali e politici, i progressi delle discipline scientifiche, le peculiarità della produzione artistica, e via discorrendo. La risposta che il filosofo propone vuole essere valida universalmente, comprensibile in linea di principio agli uomini e alle donne di ogni epoca e società; ma quella risposta, valida für ewig, è stata inevitabilmente suscitata in lui da domande riconducibili a condizioni storiche determinate.
Ecco perché fra filosofia e società vi è stato e vi sarà sempre un legame inseparabile. Giambattista Vico diceva di se stesso che era filosofo mondano e non monastico, per alludere al fatto che filosofare vuol dire contribuire a diradare i problemi intellettuali che di volta in volta sono suscitati nelle coscienze dalle creazioni dell’arte, dagli eventi della politica, dalle scoperte scientifiche, e così via. Questo e non altro è sempre stato il compito del filosofo. Finché avremo una società civile, avremo delle filosofie che cercano di criticarla, ossia di interpretarla al di fuori di condizionamenti dogmatici. Non mi persuadono i pensatori che pretendono di astrarsi dal loro tempo e trattano i loro concetti e argomentazioni come se fossero aridi modelli matematici, senza rapporto alcuno con i drammi del presente o anche solo della loro stessa vita personale…
Aggiungo infine che l’odierna società globale, oltremisura complessa, «interconnessa» e ipertecnologica, non esautora la filosofia alla stregua di un relitto d’altri tempi, anzi. Mai come oggi avvertiamo il bisogno vitale di neutralizzare in ogni campo le cristallizzazioni ideologiche e di schiudere a noi stessi nuove strade mercé l’esercizio della critica.

D: Può la filosofia diventare di nuovo la regina delle scienze e, se sì, come?

R: La concezione che faceva della filosofia il culmine delle scienze è riconducibile a un modello intellettuale irreparabilmente antiquato, per certi versi teologizzante, e che involontariamente svalutava lo stesso lavoro filosofico. Se con l’espressione «regina delle scienze» si vuol dire che la filosofia dovrebbe rappresentare il perfezionamento e la sintesi conclusiva delle indagini scientifiche particolari — analogamente, per intenderci, alla distinzione gerarchica posta da Hegel fra l’intelletto e la ragione, astratto e analitico il primo, concreta, sintetica e dialettica la seconda, quali che fossero le profonde motivazioni che indussero Hegel a tracciare quella distinzione per più versi disputabile —, temo che siamo vittime di un grave abbaglio. Lo scienziato nel suo campo non ha bisogno di ammaestramenti da parte del filosofo, e quando questi monta in cattedra per dargliene, casca ineluttabilmente nel ridicolo. Ma sarebbe d’altronde inammissibile concludere che si possa fare scienza senza filosofia. Per comune ammissione, anche il più gretto materialista fra i cultori di scienze naturali — è il primo esempio che mi sovviene — non può non prendere le mosse, nel delineare le sue indagini e nell’interpretarne i risultati, da premesse in senso lato filosofiche, per quanto rozze. Egli crede di procedere senza filosofia, mentre in realtà è prigioniero inconsapevole di una rete di categorie non elucidate criticamente, ossia di una cattiva filosofia.
Lo si avverte di frequente, oggigiorno, nelle più disparate specialità scientifiche. Pensiamo agli sviluppi, per altro verso lodevoli, delle cosiddette neuroscienze: nelle monografie e ancor più nei manuali dei cultori di queste discipline trapela di continuo il presupposto inconfessato che l’attività mentale si lasci spiegare alla luce dei processi cerebrali più recenti dal punto di vista evolutivo e in essi si risolva. Sogni, percezioni, ricordi, costrutti linguistici: tutto infallibilmente localizzato nelle aree della corteccia e nelle sue funzioni modulari. Nessuna professione esplicita di riduzionismo materialistico, intendiamoci; altrimenti, come potrebbero poi quegli scienziati seguitare a ribadire orgogliosi il carattere sperimentale delle loro indagini? Ma che un’ipotesi di metafisico materialismo — indimostrabile sperimentalmente e perciò bisognosa di fondazione critica — si insinui genericamente nelle pieghe dei loro discorsi, ben difficilmente potrà essere revocato in dubbio da chi legga con attenzione i loro testi. Sicché ci si attenderebbe da quegli scienziati che assumano veste di filosofi e che divengano criticamente consapevoli delle astratte categorie da cui — purtroppo a loro insaputa — trae origine il loro universo «sperimentale». Rigetterebbero il loro materialismo inconsapevole? Non sta a me dirlo; di certo esso verrebbe finalmente formulato in termini espliciti e ne uscirebbe determinato criticamente, ossia perderebbe il suo carattere di preconcetto, ragion per cui in virtù di questa nuova consapevolezza le loro stesse indagini empiriche assumerebbero almeno in parte diverso indirizzo.
Liberarsi della filosofia, insomma, è impossibile; ciò che solo lo scienziato può fare è approfondire criticamente le premesse categoriali che, piaccia o no, orientano il suo mestiere. Ecco finalmente chiarito per quale ragione, alla radice delle teorie dei più grandi scienziati di ogni epoca, troviamo sempre un pensiero autenticamente filosofico, anche se non sempre svolto in guise sistematiche. Abbiamo senza dubbio una filosofia di Galileo e una filosofia di Newton; meno immediatamente visibile, ma presente e operante, abbiamo una filosofia di Darwin, una filosofia in Freud e in Jung, la filosofia di un Pareto fra i sociologi ed economisti, la filosofia di un Santi Romano per citare un esempio illustre fra i giuristi, e si potrebbe proseguire a piacimento. E abbiamo poi, ahinoi, le cattive filosofie di tanti neuroscienziati, biologi, psicologi, sociologi, matematici, ecc., che si professano indifferenti alla speculazione teorica e alla riflessione metodologica.
Sarebbe ciò un riproporre l’antiquata funzione «regale», gerarchicamente sovraordinata, della filosofia rispetto alle scienze al plurale? Niente affatto. Si tratta di un punto delicato che occorre chiarire con cura. La filosofia non viene dopo le scienze, quando queste ormai hanno completato il loro lavoro. Come detto sopra, lo scienziato non è in attesa della sanzione di un filosofo che, ignaro di scienza, approvi o disapprovi o ulteriormente elabori e giustifichi i risultati del lavoro scientifico. La filosofia, cioè, non è un’attività intellettuale per principio separata dall’investigazione scientifica. La filosofia, invece, è dentro le scienze, e si svolge e determina man mano che quelle compiono il loro lavoro, orientandolo e venendone riorientata di riflesso. Una filosofia che aspiri a una malintesa indipendenza dal lavoro scientifico (fosse quello del matematico come quello dello storiografo o del filologo, poiché il concetto di scienza è latissimo e comprende sotto di sé ogni produzione intellettuale criticamente rigorosa), si risolverebbe in un cumulo di sterili pregiudizi. Non è pensabile, ad esempio, una filosofia della politica che non si misuri costantemente con gli esiti della ricerca storiografica e delle scienze politiche; parimenti, non è pensabile una teoria estetica che prescinda dall’esercizio della storiografia e critica letteraria e artistica, e tantomeno è pensabile una filosofia morale che non tenga davanti agli occhi le ricerche della psicologia, della pedagogia, delle neuroscienze, della bioetica, e così via. E ciò perché senza l’aggancio al concreto, i problemi che la filosofia agita si scoprono generici, verbosi, evaporano in un’indeterminazione stucchevole e boriosa, che è immune da qualsiasi anelito di critica.
Negare alla filosofia il ruolo di regina delle scienze non significa tuttavia riservarle il malinconico ruolo di ancella — l’assunto che qui propugno, non è una reviviscenza di positivismo. La filosofia non troneggia sopra le scienze, ma non si colloca neppure in posizione subalterna a esse. Dico invece che sta dentro le scienze, e che le scienze sono dentro la filosofia, poiché non vi è schietta riflessione filosofica che non incroci a un certo punto la concreta problematica dello scienziato. E, viceversa, non vi è schietta indagine scientifica che non avverta a un certo punto l’esigenza di chiarire problemi di ordine generale, che sono di natura filosofica. Fra filosofia e scienze vi è dunque un rapporto di concomitanza o, se si preferisce, di correlazione inseparabile. L’espressione che io preferisco è: unità dialettica di filosofia e scienze. Che è quanto dire che il lavoro del filosofo e dello scienziato sono solo astrattamente distinguibili, sicché, quando filosofia e scienza si voltano le spalle, l’esito nefasto è una filosofia verbosa e inconcludente, e una scienza che si risolve per intero nella miope determinazione di fatti bruti, scevri di inquadramento assiologico e critico.

D: La prego di dirmi qual è il contributo che la filosofia può apportare alla società contemporanea. Inoltre, possiamo parlare di una novità filosofica nella nostra epoca? Se sì, quale sarebbe questa novità?

R: Come ho anticipato di sopra, credo che il maggiore contributo che essa può offrire consiste nel risveglio e nella diffusione dello spirito critico, fosse anche solo presso singoli individui o piccoli gruppi. Uno dei più gravi problemi del nostro tempo, a mio modo di vedere, risiede proprio in ciò, nella diffusa assenza di senso critico e nella correlativa attitudine a coltivare ingenuità e dogmatismi nei più svariati campi. In questo la nostra epoca rivela un tratto paradossale. Mai come oggi, infatti, abbiamo a portata di mano così tante opportunità di leggere, di studiare, di allargare le nostre conoscenze e — cosa più importante — di riflettere liberamente: pensiamo solo all’immenso patrimonio librario del passato convertito in formato digitale e reso liberamente disponibile sul web o alla gran quantità di corsi e lezioni di ogni tipo fruibili su YouTube. Ma nel contempo oggi assistiamo a un deperimento senza pari della vita intellettuale e culturale. La Rete toglie con una mano quel che dà con l’altra; i social network, inutile negarlo, sono soprattutto il trionfo del narcisismo esibizionista e del conformismo. E questa deriva conformistica e dogmatica, fomentata dai media, non mi sembra validamente contrastata dalle istituzioni. Le università — mi riferisco al contesto accademico italiano, di cui ho avuto lunga esperienza — sono essenzialmente centri di potere burocratico. La politica, non solo in Italia, ha cessato ormai da tempo di essere una palestra di impegno e vita civile: il numero di coloro i quali si iscrivono a un partito e ne coadiuvano le attività è nettamente scemato. A mio parere, questo disorientamento e questa crisi di legittimità istituzionale dipendono in primo luogo dalla mancanza o dall’azione scarsamente incisiva di ceti colti, che siano da esempio particolarmente ai giovani. Come ci si può illudere che rinascano degli ideali etico—politici e che si gettino le basi di una nuova cultura, quando un giovane seduto sui banchi del liceo o dell’università non trova di fronte a sé maestri, ma burocrati o imbonitori?

D: Quale sarebbe, dal suo punto di vista, la migliore alternativa/direzione filosofica per la società contemporanea?

R: La sensibilità filosofica contemporanea, pur nella diversità dei suoi orientamenti, mi pare univocamente orientata al ripudio di quelle che sono state definite le «grandi narrazioni», con la loro pretesa di esaurire la comprensione della società, della storia, della natura, a partire da taluni univoci principi di fondo. Non da oggi il pensiero contemporaneo rigetta la pretesa di offrire una rappresentazione omnicomprensiva della realtà nella forma di un sistema sintetico. Anche la speculazione filosofica — beninteso, quella che non si pasce di neologismi altisonanti e che ancora si sforza di fare dell’analisi critica prosaicamente intesa la sua missione —, non diversamente dalla scienza, attende a corroborare ipotesi, a riaprire senza sosta gli esiti delle sue investigazioni, ad argomentare verità al plurale che occorre rivisitare e integrare sempre di nuovo. L’aspirazione metafisica a restituire un’immagine complessiva della realtà viene collocata idealmente alla fine o all’estremo limite di tutti i processi di investigazione analitica e di fatto tende a essere obliata, ricomparendo a tratti nella sua funzione di criterio direttivo del pensiero e di interrogativo ultimo insoddisfatto.
La filosofia del nostro tempo è una filosofia che conosce più problemi che soluzioni e che attende a convertire sempre di nuovo le soluzioni in problemi. Essa non è pertanto nelle condizioni di porgere direttive omnicomprensive e univoche a una società che si scopre sempre più complessa e senza confini prestabiliti. E che la filosofia non possa impartire direttive, mi affretto a soggiungere, è una gran fortuna. Prescrivere un indirizzo ideologico determinato alla società sarebbe infatti per essa il più grave pericolo: lo abbiamo visto con i regimi autocratici del Novecento, i quali con le loro inaudite miserie materiali e morali hanno spalancato le porte a quella che Hayek chiamava the road to serfdom, la strada verso l’asservimento indiscriminato. L’imposizione di un’ideologia determinata — anche se rivestita di una patina filosofica — sarebbe pur sempre l’imposizione del punto di vista di pochi a molti: cosa esecrabile, anche quando fosse fatta con le migliori intenzioni.
A ciascun indirizzo ideale deve invece esser garantito il diritto di manifestarsi, dibattere, confrontarsi, e a nessun indirizzo deve essere assicurata aprioristicamente la facoltà di soverchiare gli indirizzi antagonisti. Se mi si chiede quale dovrebbe essere la cornice ideale della società sarei tentato di indicare proprio questa: la garanzia per tutte le tendenze e le idee di confrontarsi liberamente e competere, così che ciascuna possa dare il proprio contributo, piccolo o grande che lo si giudichi, alla vita del proprio tempo. Siamo agli antipodi della posizione secondo cui la filosofia dovrebbe indicare agli uomini la strada da percorrere. L’orizzonte ideale condiviso del nostro tempo ha da essere piuttosto di carattere problematico o negativo: non si tratta di dire agli uomini ciò che dovrebbero fare; occorre invece che gli uomini sappiano ciò che non è loro consentito fare poiché si tradurrebbe in violazione dei diritti di libertà altrui.
Il lettore che abbia qualche dimestichezza con la storia delle dottrine politiche non avrà difficoltà a ravvisare in questa presa di posizione la cornice teorica essenziale del liberalismo: nel quale non a caso a un certo punto si è voluto vedere una vera e propria concezione dell’uomo e del mondo, addirittura una religione laica e critica, in quanto tale scevra di dogmi e «miti». L’inestimabile fondamento filosofico del liberalismo come criterio di vita etica oltre che come dottrina giuridico-politica corrisponde infatti proprio a un orizzonte di pensiero problematico o ipotetico, che accoglie per principio anche i diversamente pensanti. L’animo liberale non crede di possedere in maniera esclusiva i valori dello spirito (bontà, bellezza, giustizia, ecc.) e che gli altri ne siano per principio esclusi. Egli è piuttosto portato a sottoscrivere il convincimento di Lessing, secondo cui il destino dell’uomo, e la sua inalienabile dignità, non consiste nel presunto possesso della verità, bensì nella ricerca indefinitiva della verità. In quest’ottica, anche gli avversari e i diversamente pensanti esercitano un ruolo insostituibile: è solo grazie alla loro attiva opposizione che possiamo definire sempre meglio i nostri ideali e pensieri e ampliarne senza preclusioni i limiti. In ogni caso, alla ricerca non è dato apporre la parola fine: potrebbe bene accadere, nel corso di essa, di riconciliarci con i nostri avversari o addirittura di rigettare le nostre ragioni per abbracciare le loro. Ecco, in conclusione, perché sono tratto a credere che prescrivere una direttiva ideologica univoca e totalizzante alla società vorrebbe dire preparare la sua involuzione autoritaria. È indispensabile perciò garantire democraticamente il pluralismo, ossia la libera competizione delle tendenze sociali, mercé le risorse del diritto e un’oculata attività politica e legislatrice ma soprattutto mediante l’alacre diffusione di idee ragionate presso la stampa periodica, nella pubblicistica scientifica e letteraria e nelle scuole di ogni ordine e grado.

D: Se Lei è d’accordo, vorrei parlare con Lei anche della vocazione spirituale della filosofia. Qual è la sua opinione in merito?

R: La filosofia ha una vocazione spirituale inalienabile. Ma a questo riguardo non vorrei che si fraintendesse quanto ho detto di sopra circa l’unità dialettica di filosofia e scienze. L’immanenza dell’interrogativo filosofico nell’investigazione scientifica fa sì che quest’ultima non si riduca a un’operazione di mero accertamento o quantificazione di fatti grezzi, e ciò perché la filosofia in ogni caso non si risolve in una metodologia empirica delle scienze. Essa reca nella concretezza del sapere positivo un alito di universalità, un orizzonte critico e assiologico che trascende la determinazione del dato particolare, verso cui prima facie la scienza si indirizza. Affrancata per sempre dal miraggio di sintesi enciclopediche totalizzanti e destinata a concrescere con la ricerca rigorosa intorno a problemi particolari e circoscritti — ricerca che merita eo ipso il nome di scienza —, la filosofia non cessa ciononostante di offrire una rappresentazione dei valori della vita spirituale.

D: Come interpreta Lei il libro di Gianni Vattimo, Credere di credere, e quale sarebbe la sua importanza per la filosofia italiana contemporanea?

R: Confesso di non aver mai letto questo libro. Delle polemiche che ha suscitato, mi è giunta solo qualche eco. Ma il tema della demitizzazione del Cristianesimo e della sua perdurante, sovente disconosciuta efficacia anche nell’Occidente secolarizzato, è del più grande interesse. Per me è tutt’altro che un tema nuovo. Posso dire che a questo nucleo problematico in passato ho dedicato parecchi sforzi: esso è al centro della mia monografia sul problema religioso in Benedetto Croce, libro che ha avuto una certa risonanza e che ha contribuito a rinnovare alquanto il discorso critico su questo sommo filosofo e storico, intorno al quale molti in Italia si ritengono in diritto di parlare e scrivere senza averne letto nemmeno un rigo [1].
Dalla mia ricostruzione del pensiero di Croce risulta che noi continuiamo ad abbeverarci alle sorgenti evangeliche del Cristianesimo e ai suoi millenari sviluppi dottrinari, molto spesso senza esserne consapevoli, anche quando siamo fuori di ogni Chiesa, anche quando, cioè, giudichiamo obsoleta e arbitraria la veste teologica e mitica in cui la religione di Cristo ci è stata tramandata. Può apparire paradossale, ma quella che è stata storicamente la progressiva svalutazione della forma religiosa del Cristianesimo non ha prodotto l’estinzione degli insegnamenti cristiani, i quali hanno anzi subìto una trasvalutazione nell’ambito di orientamenti dottrinali che sovente non erano e non sono soliti richiamarsi al Cristianesimo e addirittura tendono a distaccarsene polemicamente.
Molte delle idee portanti della nostra civiltà rivelano incontestabilmente una remota origine cristiana, o quantomeno recano il segno indelebile del pensiero e del sentimento cristiani (anzitutto evangelici) anche solo alla stregua di una ideale premessa. Si potrebbero fare moltissimi esempi, tratti dai campi più disparati. Mi sovviene anzitutto un’idea come quella di progresso, che ha illuminato la civiltà del Settecento e dell’Ottocento e che, quantunque entrata in crisi e intensamente problematizzata durante il Novecento, non ha per questo cessato di suscitare interrogativi e aneliti in direzione di una sua possibile riformulazione o restaurazione, quasi si trattasse di un orizzonte di valore irrinunciabile come l’aria che respiriamo, poiché in fondo sentiamo che se non procediamo innanzi torniamo indietro, in ogni ambito della vita individuale e associata: concetto, questo, che invano si cercherebbe fra i principi guida dell’ethos occidentale prima dell’apparizione della religione cristiana.
Oppure si consideri una categoria come quella di rivoluzione, che dall’ultima decade del Settecento è venuta occupando un ruolo preponderante nel lessico politico e politologico. Nello svolgimento storico e intellettuale della Rivoluzione francese (ma altresì nella materialistica Rivoluzione d’Ottobre!) affiora ben presto l’idea che la rivoluzione è destinata a inaugurare un novus ordo: un rivolgimento complessivo della società, dal quale dovrebbe sorgere un uomo nuovo. La distruzione delle vecchie strutture istituzionali, politiche e sociali, nelle rivoluzioni che hanno segnato la storia europea, non è mai stata fine a se stessa: era, nell’intendimento dei loro fautori, la premessa di una renovatio, di un rivolgimento antropologico vero e proprio. Impossibile che nella mente dei rivoluzionari potesse formarsi una rappresentazione siffatta senza la perdurante influenza di concezioni profetico-millenaristiche, riconducibili in ultima istanza alla tradizione giudaico-cristiana; per tacere del fatto che non si dà rivoluzione come invenzione di un novus ordo, se non presupponendo un ideale di progresso storico e sociale, che invano si cercherebbe presso gli antichi, e cioè prima del Cristianesimo.
Si considerino poi gli ideali liberal-democratici, quali si sono venuti affermando nel corso dell’Ottocento e soprattutto del Novecento. Prendiamo anzitutto l’idea di uguaglianza giuridica dei cittadini, che è custodita nelle nostre costituzioni e che è inseparabile dall’idea di libertà. Certo già la democrazia ateniese nel V secolo riconosce e valorizza l’ideale egualitario: come non rammentare a questo proposito il mirabile epitaffio di Pericle (Tucidide, II, 37-39), ove è detto che la grandezza della democrazia ateniese riposa essenzialmente su due fondamenti: isegoria, cioè a dire libertà di parola, per gli aventi diritto, in assemblea, e isonomia — «di tutti il nome più bello», dichiarava questa volta Erodoto —, ossia l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge? Nonostante i tentativi che alcuni storici hanno fatto di colmare lo iato, incommensurabile resta tuttavia la distanza fra il modo in cui concepivano l’uguaglianza i Greci e il modo in cui la concepiamo noi, che siamo stati plasmati dal modo di pensare e di sentire cristiano. L’uguaglianza, nelle póleis elleniche, era riservata ad alcuni, non era invocata per tutti. Ne erano esclusi anzitutto donne e schiavi. Era un’uguaglianza giuridica che non riposava su un ideale morale di uguaglianza esteso per principio al genere umano nella sua interezza. Mentre l’uguaglianza come l’intendiamo noi comprende l’ambito strettamente politico delle assemblee ove si delibera collegialmente, ma in esso non si risolve. Il nostro ideale di uguaglianza si fonda su un sentimento di pari dignità umana e sociale (come si legge, tra l’altro, nell’art. 3 della Costituzione italiana), senza discriminazioni di sesso, di lingua, di cultura, di razza, di condizione economica, ecc. Un simile ideale non sarebbe neppur lontanamente concepibile, senza la remota ma pur sempre efficace premessa storica dell’etica cristiana; senza, cioè, l’assunto — formulato da Paolo di Tarso nella lettera prima ai Corinzi — onde tutti noi, «sia Giudei, sia Greci, sia schiavi, sia liberi, siamo dissetati da un solo Spirito» [2] e perciò siamo uguali quanto a dignità e umanità.
In generale, poi, il principio capitale del moderno liberalismo — il diritto del singolo a dissentire e, in ogni caso, ad affermare l’inviolabilità della sfera interiore dei suoi pensieri e sentimenti contro le ingerenze di ogni potere costituito — non avrebbe mai potuto esser formulato se non fosse stato scritto (con parole diverse nei tre Vangeli sinottici): date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio [3]. Che è la premessa del regime separatistico di Stato e Chiesa e del convincimento liberale onde il potere costituito, quand’anche sia riconosciuto nella sua legittimità dai cittadini, non può travalicare i suoi limiti e coartare gli intangibili valori e gl’imprescrittibili diritti di libertà della persona. Come disse Luigi Einaudi in un luogo aureo delle sue Lezioni di politica sociale, sono da stimarsi cittadini liberi e consapevoli quegli «uomini, i quali a chi comanda di compiere un atto contro coscienza sappiano rispondere: no, fin qui comanda Cesare, al di qua ubbidiamo solo a Cristo e alla nostra coscienza» [4].
Ma non vorrei suscitare l’impressione arbitraria onde solo le dottrine politiche liberali o democratico-liberali avrebbero un’origine storica riconducibile al Cristianesimo. Mi sovviene in proposito un esempio, credo, suggestivo. Nella lettera agli Ebrei San Paolo afferma: «noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» [5]. È il dualismo di città presente (ossia la società effettuale, intaccata dal peccato) e città futura (ideale o divina), che ritroviamo alla radice del noto dualismo agostiniano di città terrena e città celeste. La città terrena è il dominio della perdizione e della sofferenza; la città divina che verrà e che già si annunzia, rischiarata dalla purezza dei valori evangelici, rappresenta per contro il riscatto dal male, dalla carne, dal peccato, e a essa i fedeli debbono tendere con tutte le loro forze, sebbene persuasi che Dio porterà a compimento il suo regno nonostante le opposizioni degli uomini di cattiva volontà. Nel 1917 il giovane Antonio Gramsci, ardente rivoluzionario, redige per intero un numero unico a cura della federazione giovanile socialista piemontese, il cui titolo non può essere casuale: «La città futura». Nessun riferimento, come è naturale, in quel foglio del materialista Gramsci, alle scritture sacre. Ma come non cogliere, nell’immagine della polis redenta dai mali del lavoro alienato e della disuguaglianza e conflittualità di classe, un’eco profonda della dottrina millenaristica del pensiero cristiano?
Ma anche in ambiti distanti dalla storia delle dottrine politiche in senso stretto si potrebbero agevolmente reperire tracce durature della sovente disconosciuta efficacia del Cristianesimo. Si consideri ad esempio il concetto del lavoro. I Greci — lo ha mostrato, tra gli altri, uno storico come Jean-Pierre Vernant — non riuscirono mai ad attribuire un significato positivo al lavoro, redimendolo dall’idea unilaterale della fatica, dello sforzo penoso in quanto ponos, inerente come tale alla condizione di schiavo. Anzi, nemmeno ebbero, del lavoro, un concetto unitario, di genere, per così dire, che si sollevasse al di sopra dei singoli mestieri e occupazioni e tutti li ricomprendesse dentro di sé. Con il Medioevo si assiste anche in quest’ambito a una svolta epocale. Fu decisiva la rappresentazione biblica secondo cui Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Questa rappresentazione tornò in auge specialmente dal XII secolo, ha osservato Jacques Le Goff, ossia quando ebbe inizio il rinnovamento umanistico dell’età di mezzo. E da quel momento il lavoro umano venne concepito sul modello del lavoro divino, ossia come energia inventiva e creatrice, capace di trarre cose mirabili ex nihilo. Non è un caso che la rivalutazione del lavoro, di cui siamo debitori al Medioevo e al Cristianesimo, passi anche attraverso il monachesimo, dal momento che i monaci erano tenuti a imparare e a esercitare un lavoro manuale ed erano tenuti in gran considerazione in tutta la società civile.
Un capitolo bellissimo, ancora tutto da scrivere, è poi quello che concerne il rapporto di scienza e Cristianesimo. Non di rado la religione cristiana — innanzitutto la Chiesa — è stata dipinta come nemica acerrima della scienza nel corso dell’età moderna e anche al presente. Sicché la communis opinio — oggi abilmente assecondata da scaltri accademici autori di best seller — è indotta a credere che la scienza, per affermarsi e progredire, quantomeno dai tempi di Leonardo e Galileo, ha dovuto muovere lancia in resta contro credenze e dogmi religiosi e quando non ha potuto averne ragione, si è adattata a convivere con essi nelle guise del compromesso o della doppia verità. Non sono pochi gli uomini di scienza che rivendicano esplicitamente il loro ateismo, quasi che il lavoro scientifico presupponga, come suo insuperabile orizzonte, il materialismo e la negazione di qualsiasi credenza nel trascendente. Non prenderò qui posizione su questo atteggiamento, che peraltro sconfina facilmente nel dogmatismo. Desidero solo osservare che fra le premesse intellettuali che hanno reso possibile l’impresa scientifica moderna nella sua grandiosa multiformità, occorre annoverare ancora una volta concezioni riconducibili al Cristianesimo. Il che non significa disconoscere il fatto storico incontestabile onde a più riprese la Chiesa cattolica (e a dire il vero inizialmente anche il Protestantesimo, in primis Lutero e Melantone) ha avversato con tenacia la scienza e i suoi eroi e, in generale, le manifestazioni del libero pensiero nei campi più disparati.
Mi limiterò qui a taluni cenni, anche perché non ho competenze specifiche nella storia del pensiero scientifico. Nel Cristianesimo riveste importanza capitale la dottrina dell’Incarnazione, la quale esprime «la possibilità per il Dio eterno — ha scritto Alexandre Kojève, esaminando a sua volta il problema del rapporto di scienza moderna e Cristianesimo — di essere realmente presente nel mondo temporale in cui noi viviamo, senza tuttavia decadere dall’assoluta perfezione» [6]. Il Cristianesimo inaugura la persuasione che l’assoluto, l’universale, Dio non vive e opera se non nell’omnimode determinatum, nell’individuo, come insegnano in primis la cristologia e la dottrina della redenzione. A ben considerare, è a partire da concezioni come questa che lentamente entra in crisi la visione, tramandata dall’aristotelismo, onde il cosmo si dividerebbe in un “alto” e in un “basso”; in un dominio celeste che non è soggetto a mutamenti, la perfezione e razionalità del quale non soffre eccezioni, e in un dominio terrestre segnato dall’incessante divenire, dalla generazione e dalla corruzione. La scienza moderna — dapprima la fisica e l’astronomia e via via le restanti discipline della materia inorganica e organica — è sorta sulle macerie dell’antiquata cosmologia dualista, la quale presupponeva una fisica celeste e, da questa distinta per principio, una fisica terrestre; una fisica del sopramondo e una fisica del mondo. Tutte le singole scoperte sperimentali, tutti i costrutti teorici della scienza moderna almeno da Copernico e Keplero s’inquadrano entro questo generale rivolgimento di paradigma e da esso sono rese possibili.
Cos’era accaduto? In che modo è potuta maturare quest’idea del cosmo tutto come di un ordine unitario e omogeneo, nel quale le leggi che regolano i moti dei pianeti si fondano sugli stessi principi che regolano i rapporti di causazione che intercorrono fra i più semplici oggetti che manipoliamo nella vita quotidiana? Senza dubbio l’idea dell’incarnazione, liberata dal suo involucro mitologizzante e antropomorfico, è stata un presupposto cruciale per la formazione di queste vedute. L’istanza capitale della scienza moderna — la matematizzazione della natura — muove dall’assunto che non vi sia frammento o particella di realtà — sia pure nell’umile e continuamente cangiante mondo sublunare —, che non sia suscettibile di essere spiegato alla luce di rapporti numerici quantitativi; anzi, che non abbia entro di sé i rapporti, le forme, le universali categorie della matematica. Ecco il punto essenziale: il numero, le relazioni matematiche non esistono solo in astratto; esse s’incarnano nella realtà effettuale e consentono di spiegarla ed entro certi limiti almeno, di prevederne lo svolgimento. Era, questa concezione, l’adattamento o la metamorfosi sotto specie matematica e di filosofia della natura del principio cristiano dell’incarnazione o dell’unità di spirito e materia corporea.
A ragione gli storici hanno sottolineato il platonismo di Keplero e soprattutto di Galileo, e nel contempo l’avversione di entrambi verso l’aristotelismo di scuola, di cui il Dialogo sopra i due massimi sistemi offre una rappresentazione sferzante, quando Galileo mette in bocca a Simplicio il motto: «non bisogna nella scienza naturale ricercar l’esquisita evidenza matematica» [7]. Ma ancor più della suggestione che spirava dalla dottrina platonico-pitagorica del Timeo, con la raccomandazione a oltrepassare il piano della mera percezione sensibile in direzione di una scienza della natura tutta intessuta di rapporti geometrici e quantitativi, seguitava ad agire nella mente di Galileo quella che potremmo definire una premessa intellettuale di portata epocale, ignota tanto ad Aristotele quanto a Platone, e riconducibile invece alla dottrina cristiana, onde non solo l’ideale, lo spirito, s’incarna e vive nel particolare, nella natura, ma in quell’atto redime il fatto particolare in quanto lo riscatta e gli attribuisce un valore non perituro. Gli storici della scienza e della filosofia — quelli fra loro, beninteso, che non si appagano di affastellare date e dati ma si dedicano a illustrare criticamente i documenti che vengono raccogliendo — hanno rilevato che la moderna fisica d’impianto ipotetico-sperimentale e matematico non avrebbe mai potuto delinearsi nella mente di Galileo, se questi non avesse oltrepassato insieme con il dualismo aristotelico di mondo lunare e sublunare, il non meno radicale dualismo che Platone introduceva fra la razionalità incontaminata delle forme ideali e la materia come “ombra”, ontologicamente mutevole e assiologicamente vana. E chi altri se non degli scienziati figli di una cultura imbevuta di simboli e concezioni cristiane, avvezzi a sentir parlare da sempre di incarnazione e di redenzione, avrebbero mai potuto compiere una tale rivoluzione intellettuale?
Certo, occorre non perdere mai di vista il fatto che il Cristianesimo in tanti secoli è concresciuto insieme alle molteplici manifestazioni che la cultura e civiltà cristiana veniva via via producendo. Esso dava e nel contempo riceveva, trasformava e veniva trasformato; come del resto conferma la sua plurisecolare e ricchissima storia teologica, nella quale si rispecchiano i mutamenti intellettuali e filosofici che hanno segnato il succedersi delle diverse epoche storiche. La redenzione del particolare, della materia, della carne persino — che, ignota agli antichi e agli orientali, fu inaugurata dal Cristianesimo con la dottrina dell’Incarnazione — richiese molteplici approfondimenti, dovette abbattere molti ostacoli e preconcetti, prima di giungere a dispiegare per intero il suo significato e a manifestare senza preclusioni le sue inaudite conseguenze. Fu un processo che si protrasse per molti secoli. I Padri della Chiesa erano soliti disprezzare la corporeità e le sue funzioni, e di loro non si può certo dire che accogliessero il principio dell’incarnazione in tutte le sue possibilità e implicazioni teoriche; diverso atteggiamento terranno, molti secoli dopo, Tommaso d’Aquino e, in generale, i filosofi della piena e della tarda Scolastica, nei quali l’avversione per la natura viene attenuandosi e la Grazia spirituale e divina appare diretta a perfezionare la natura, non già ad annullarla [8]. Ma quel che importa sottolineare ancora una volta è che tutti questi sviluppi e rimodulazioni ebbero luogo entro il solco tracciato dal Cristianesimo e furono come l’approfondimento della sua intentio originaria. Davvero occorre tornare a meditare le pagine in cui Benedetto Croce dava risalto al carattere plastico e fecondo di quella che egli definiva la «rivoluzione cristiana» e che era da lui intesa alla stregua di una fonte inesauribile di stimoli e suggestioni, cui di continuo si è abbeverata la cultura e civiltà dell’Occidente [9].
Non ignoro, naturalmente, che filosofi e gente comune a più riprese hanno scagliato il loro anatema contro il Cristianesimo. A volta a volta la religione di Cristo è apparsa fonte di corruttela, di ipocrisia e finzione, di un ascetismo preconcetto che nega i diritti della corporeità, ed è persino stata qualificata come un’ideologia appositamente prodotta allo scopo di favorire interessi materiali occulti. E tantomeno ignoro che in un mondo integralmente secolarizzato come il nostro, parlare di una perdurante efficacia del Cristianesimo potrebbe apparire una esagerazione bella e buona. Su un punto non sono consentiti dubbi: l’intero complesso di rappresentazioni mitiche del Cristianesimo appare oggi irrimediabilmente svalutato. Nessuno — anche chi sinceramente si dichiara cristiano — può oggi rappresentarsi alla lettera il mondo e il sopramondo con l’ausilio dei simboli e delle leggende che riempiono le sacre scritture. Ma resta il fatto, a mio avviso incontestabile, che scavando in profondità nel terreno della nostra civiltà e cultura, radici cristiane affiorano di continuo, ed esse paiono il segno di una vitalità perdurante.
Non vorrei d’altronde che la metafora delle radici inducesse a fraintendimenti. Non ritengo, cioè, che i contenuti del cristianesimo, poiché integrati nei fondamenti della nostra civiltà e cultura, siano da considerarsi cosa del passato, inadatta a indicare al presente orizzonti verso cui tendere e nuovi ideali da perseguire. Si pensi anzitutto all’etica evangelica dell’altruismo. Vi sono ottime ragioni per credere che essa rappresenti ancora oggi un’autentica pietra di scandalo sociale. Si pensi solo all’Italia e all’Europa. Il grave squilibrio generazionale nel lavoro e nelle garanzie sociali, la chiusura verso i migranti, il sordo egoismo che traspare nei reciproci rapporti fra le nazioni del consesso europeo e che tenta di giustificarsi mercé le argomentazioni tecniche tanto care a politici e alti burocrati: sono solo alcuni dei temi di attualità che palesano soprattutto la carenza del nostro sentire cristiano e nel contempo l’indispensabilità di una rinnovata abundantia cordis, dalla quale non tarderebbero a uscire soluzioni politiche e istituzionali adeguate.
In definitiva, mi pare che il fondamentale retaggio del Cristianesimo si lasci compendiare nella disposizione ad accogliere e promuovere la vita nelle sue manifestazioni più disparate. Anche se dichiaratamente laici o agnostici, siamo figli della religione di Cristo quando senza preclusioni tentiamo di comprendere e proteggere l’umanità e la natura; siamo fuori e contro tale religione, invece, allorché ci disinteressiamo dell’uomo e della natura ed egoisticamente ci rinserriamo nella relatività del nostro particolare, scambiandolo per universale e assoluto.

D: Perché l’uomo dovrebbe studiare la filosofia ai nostri giorni?

R: Nessuno deve sentirsi obbligato a studiare alcunché. Solo un’esigenza interiore incoercibile — un tarlo che scava senza requie nella mente — giustifica l’idea di dedicarsi agli studi filosofici. Peraltro, chiunque sia animato da verace volontà di comprensione, quale che sia il suo campo specialistico di studi, si troverà ricondotto alla filosofia. Anche senza esserne consapevoli, un punto di vista filosofico è sempre nella mente di chi prende a esaminare un qualsiasi problema intellettuale. Anche il pensiero volgare, frammisto di pregiudizi, è filosofia, quantunque sia una philosophia inferior. Necessariamente, cioè, la disamina critica di una questione intellettuale qualsiasi presuppone un punto di vista logico di tipo universalizzante, fosse anche quello puramente negativo dello scettico o del materialista.
D’altronde, secondo quanto ho sostenuto in precedenza a proposito dell’unità di filosofia e scienze, non vi è pensiero filosofico che non si determini e precisi attraverso la disamina di problemi intellettuali particolari, come tali di natura scientifica. Oggi più che mai, di fronte all’impetuoso sviluppo delle scienze, è la formazione tradizionale dello studente (e dello studioso) di filosofia che dovrebbe mutare in profondità. Trascorrere gli anni universitari e quelli del praticantato accademico con la schiena curva sui soli testi della tradizione filosofica, dall’antichità a oggi, sulla base del presupposto dogmatico che la filosofia, la sua storia e i suoi problemi, rappresentino un campo a sé, ben delimitato e inconfondibile rispetto a tutti gli altri ambiti del sapere, rappresenta una vera iattura. Da subito, invece, lo studente di filosofia dovrebbe essere gradualmente abituato, man mano che prende dimestichezza con qualsiasi autore, maggiore o minore, della tradizione filosofica, a riconoscere le condizioni storiche fra cui l’opera di quell’autore è sorta e a discernere la peculiare problematica (scientifica, politica, sociale, etica, biografica, e simili) che l’ha animata. Non vi è maggiore stortura del concepire la filosofia come un cristallo, le cui trasparenze incontaminate offrirebbero allo sguardo solo nude strutture concettuali. La vera filosofia è sempre “impura”, materiata di passioni e di esperienze umane, senza le quali il rigore logico e speculativo non avrebbe contenuto alcuno su cui esercitarsi e si rivelerebbe solo un congegno friabile e insulso.

 

Note

[1] A. Di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, Franco Angeli, 2001.

[2] Lettera prima ai Corinzi, XII, 13. Cfr. La Bibbia concordata. Nuovo testamento, Milano, Mondadori, 1982, p. 443.

[3] Matteo, 22, 21; Luca, 20, 25; Marco, 12, 17.

[4] L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897 ‒ 1954), Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 295.

[5] Lettera agli Ebrei, 13, 14. Cfr. La Sacra Bibbia, a cura di F. Frezza, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2015, p. 4239.

[6] A. Kojève, Il silenzio della tirannide, Milano, Adelphi, 2004, p. 134.

[7] G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 291.

[8] Cfr., ad esempio, E. Cassirer, Dall’Umanesimo all’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1995, in particolare p. 123.

[9] Mi sia consentito il riferimento alla mia monografia su Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, Franco Angeli, 2001, in particolare p. 287 ss.

 

 


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