Gli atti sociali in Edith Stein (2)
Gli atti sociali in Edith Stein (2)
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Il problema dell’empatia
La tesi di dottorato di Edith Stein non contiene alcun riferimento esplicito a Reinach, né alla sua teoria degli atti sociali. Tuttavia egli costituisce, insieme a Husserl, il principale interlocutore speculativo della Stein, non solo in quanto collaboratore dell’autrice alla stesura della tesi, ma soprattutto perché molte delle idee principali espresse dalla Stein in questo scritto appaiono chiaramente come una risposta alla teoria reinachiana del “sociale”.
Un primo esempio è dato dalle parole impiegate per analizzare il ruolo giocato dall’io in quanto soggetto cosciente e al contempo oggetto di percezione dell’altro nel processo empatico:
Se cominciamo con l’evidente manifestarsi del fenomeno che ci viene rivelato nella sua concretezza e pienezza attraverso il mondo della nostra esperienza, ci renderemo subito conto che il fenomeno di un individuo psicofisico è decisamente diverso da quello di un Oggetto fisico. Infatti, il fenomeno non si dà soltanto come corpo fisico (physischer Korper), bensì anche come corpo proprio (Leib) dotato di sensibilità, come corpo cui appartiene un Io capace di avere delle sensazioni, di pensare, di sentire e volere, infine come corpo che non fa parte solo del mio mondo fenomenico, ma è esso stesso centro di orientamento di un simile mondo fenomenico, di fronte a cui si trova, e con il quale io sono in commercio reciproco [1].
Si tratta di una descrizione straordinariamente efficace della forma propria di quegli atti che Reinach definisce “sociali”. Se è vero che una promessa è un atto sociale perché nel farla io non ho davanti solo un riferimento oggettivo, ma necessariamente un destinatario in grado di comprendere, di “empatizzare” diciamo ora con Stein, la mia intenzione, è altrettanto vero che l’“io” di questo atto non può limitarsi ad essere assoluto nella sua purezza, ma deve corrispondere a qualcosa di concreto, di reale. Il problema dell’identità del riferimento non può trovare soluzione fin quando non si ammette, come fa esplicitamente Edith Stein, che la dimensione dell’io è costitutivamente relazionale, e tale aspetto non smentisce, anzi rafforza lo stesso metodo fenomenologico, purché esso rimanga legato ad una visione realista del mondo, in cui cioè l’io non resta imprigionato nella propria individualità. In altre parole la certezza che al pronome “io” corrisponda effettivamente un io empirico è data proprio dall’intuizione empatica dell’altro, la cui percezione ha per oggetto la mia presenza materiale, e per contenuto empatico il mio stesso vissuto. Il passaggio dall’io puro all’io in quanto unità psicofisica, senza che uno implichi la smentita dell’altro, avviene grazie allo sguardo empatico, capace di cogliere l’altro come soggetto dotato di sensazioni e percezioni, fra cui la percezione della mia datità concreta.
Da quanto detto dovrebbe emergere il criterio utile per cercare di rispondere anche agli altri due dilemmi che si erano posti, allorquando Reinach aveva fondato i suoi atti sociali sul bisogno di espressività: come stabilire la relazione pur necessaria per gli atti sociali, tra la consapevolezza interiore ed il corpo nel quale e attraverso il quale essa è diretta? Come è possibile che altri individui, oggetti della mia esperienza, siano dati in essa anche come soggetti di altrettante esperienze, indispensabili alla mia comprensione per una corretta visione del mondo? Procedendo nella sua analisi di quella che è definita come una specie di atti esperienziali sui generis, mediante i quali ci vengono dati dei Soggetti estranei e la loro esperienza vissuta [2], Edith Stein affronta direttamente il problema della relazione mente-corpo, problema centrale nella sua analisi, perché dalla sua soluzione dipende la validità di tutta l’argomentazione sull’empatia:
Abbiamo almeno sommariamente reso conto di ciò che si deve intendere quando si parla dell’Io individuale: l’individuo è un Oggetto unitario, in cui l’unità della coscienza di un Io e un corpo fisico si congiungono indissolubilmente; pertanto ciascuno dei due assume un carattere nuovo: il corpo si presenta come corpo proprio, mentre la coscienza si presenta come anima dell’individuo unitario […] L’individuo come un tutto è un membro nell’ambito della natura [3].
Senza ancorarla saldamente alla struttura e al dinamismo della persona umana, l’empatia resta un fenomeno inspiegabile filosoficamente, e ciò equivale a «proclamare un miracolo e dichiarare il fallimento della ricerca scientifica» [4]. È necessario dunque ancora una volta abbandonare l’atteggiamento naturale, e considerare gli atti nella loro dimensione completa, e ciò è possibile solo se, seguendo le argomentazioni della Stein, si giunge ad una concezione dell’essere umano “integrale”.
Le sue acquisizioni nel campo dell’indagine antropologica, che in questa sede non è opportuno approfondire oltre, possono servire a chiarire questo punto decisivo per il percorso intellettuale sia di Reinach che di Edith Stein, in quanto segna un momento di rottura irreparabile con Husserl. Reinach apre la strada all’intersoggettività affermando la necessità di concepire almeno alcuni tipi di atti come essenzialmente legati alla dimensione relazionale; Stein da parte sua tematizza in maniera sistematica tale questione, fondando la sua concezione della persona umana come un soggetto la cui comprensione di sé e del mondo è incompleta se non si apre alla consapevolezza empatica degli altri soggetti.
L’empatia rappresenta dunque non solo la condizione di possibilità per la giustificazione degli atti sociali, ma addirittura il concetto dalla cui trattazione corretta può dipendere l’intero sistema della Fenomenologia. Quando nell’agosto 1916 Husserl approvava la tesi di dottorato della sua allieva, non si rendeva certamente conto di questa possibilità.
Note:
[1] Edith Stein, Il problema dell’empatia, p. 70.
[2] Edith Stein, Il problema dell’empatia, p. 79; p. 66.
[3] Edith Stein, Il problema dell’empatia, p. 147.
[4] Edith Stein, Il problema dell’empatia, p. 120.
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