Temi e protagonisti della filosofia

Fisiologia dell’immagine: Zavattini e la nascita del neorealismo cinematografico

Fisiologia dell’immagine: Zavattini e la nascita del neorealismo cinematografico

Gen 31

Il movimento neorealista, che come indirizzo filosofico si opponeva a tutto ciò che aveva rappresentato il fascismo ed era animato da una visione del mondo e dei fatti sociali echeggianti temi marxisti quali la denuncia di una condizione umana offesa da difficoltà e violenze quotidiane e quindi dalla riscoperta dei valori primigeni del mondo contadino e delle classi subalterne (tale indirizzo coincise infatti con la scoperta e la pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci), si segnalò dal punto di vista cinematografico [1] per l’abbandono della struttura narrativa romanzesca e per l’adozione di uno stile quasi documentaristico (volto a portare alla luce quelle situazioni nascoste dalla cultura dominante, quegli aspetti inessenziali, mediocri, impoetici dell’esistenza), il quale, grazie a realtà come la teoria del pedinamento di Zavattini anticipatrice del noto piano sequenza della Nouvelle Vague, l’utilizzo di attori non professionisti, di ambienti e di un parlato naturali, nonché a una espressiva fotografia in bianco e nero, generò una corrente artistica assolutamente nuova, come ci ricorda il noto critico e teorico francese André Bazin, di rilevanza internazionale [2].

La grande intuizione del giornalista, commediografo e scrittore di Luzzara, in armonia con la convinzione adorniana che l’esperienza dell’arte è compensazione del disincanto del mondo e dell’alienazione che il progresso economico e tecnico-scientifico comporta, è che la moderna concezione del cinema consente finalmente la possibilità di rompere connessioni pragmatiche tra personaggio e situazione, tra scena e scena, di sospendere la dimensione continua e lineare del tempo dell’epoca classica, «restando nella scena» [3]. Ossia, facendo di quest’ultima una situazione ottico-sonora pura che consente di sostituire l’obsoleto legame senso-motorio con un rapporto di erranza-veggenza [4]. Una scena che può venire analizzata come un «dramma delle cose che si incontrano» [5]. Una scena che ci viene incontro. Proprio analizzando i numerosi incontri frammentari, spezzati, quotidiani del film neorealista (si pensi ad esempio all’incontro della servetta con il suo ventre di donna incinta in Umberto D di Vittorio De Sica o agli incontri di Paisà di Roberto Rossellini), scopriamo come il cinema sia stato riconsegnato alla sua forza di rivelazione: alla logica dell’azione, dell’invenzione, della narrazione, viene infatti sostituita l’immersione dell’uomo nel flusso della vita («la vita non è quella inventata nelle “storie”, la vita è altra cosa» sosteneva Zavattini [6]). Una posizione in qualche modo assimilabile a quella di Pier Paolo Pasolini teorico della settima arte (spesso tacciata di ingenuità), la quale afferma che il senso appartiene alla materialità delle cose; che qualsiasi linguaggio, in fondo, assume una posizione meramente “integrativa”, di traduzione di qualcosa che è già inscritto nella realtà. Un’attitudine che comunque non scade mai nella felliniana riqualificazione dei materiali di quest’ultima nel segno della caricatura, di un’ipertrofica e coatta stimolazione sensoria dello spettatore (si pensi a Casanova e a La città delle donne, dove il rapporto con l’altro diventa innanzitutto un momento di liberazione o di sublimazione di desideri profondi, luogo esplicito di seduzione e di esibizione carnale: uno spettacolo pirotecnico, quasi grottesco, diretto a un pubblico mai sazio di stimoli e di eccitazioni sensorie) [7].

L’innovativa poetica zavattiniana, il cinema “antropomorfico” di autori come Luchino Visconti [8], subordinando la storia e gli intrecci all’incontro, alla veggenza, al “durante”, hanno accompagnato la pratica e rinnovato la teoria della settima arte [9], toccando alcuni dei nodi più importanti circa la creazione dell’immagine e la rappresentazione. E lo hanno fatto rompendo con l’idealismo [10], smarcandosi dal marxismo contenutistico, uscendo dalla stretta gabbia del realismo lukàcsiano ed entrando in sintonia con quanto veniva pensato, ad esempio, in Francia, dove sin dagli anni Trenta, dietro la spinta fenomenologica (Husserl) e l’influsso bergsoniano, la filosofia si era aperta a una nuova riflessione sull’immagine (si pensi alle teorizzazioni, tra gli altri, di Maurice Merleau-Ponty, Jean Paul Sartre, Étienne Souriau e Jean-Luc Godard [11]).

Note

[1] Il termine “Neorealismo” si diffonde originariamente a partire dal film Ossessione di Visconti uscito nel 1942; dopo il 1943 l’etichetta si estende anche all’ambito letterario.

[2] André Bazin, Le réalisme cinématographique et l’école italienne de la Libération, “Esprit”, gennaio 1948, antologizzato in André Bazin (1964), Que’est-ce que le cinéma?, vol. IV, Une esthétique de la Réalité: le néo-réalisme, Paris, Ed. du Cerf, pp. 9-37. In realtà, il cinema neorealista deve molto anche a opere realizzate durante il “ventennio” quali Luciano Serra pilota (1938), co-sceneggiato da Roberto Rossellini e diretto da Goffredo Alessandrini, Mine in vista (1939), Uomini sul fondo (1941) e Alfa Tau! (1942) di Francesco De Robertis, nei quali emerge una minuta osservazione della realtà e del comportamento umano in determinate situazioni storiche e sociali. Se pensiamo inoltre al fatto che nel 1942 uscirono autentiche “pietre miliari” del nostro cinema (e non solo) come Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti, I bambini ci guardano di Vittorio De Sica e Ossessione di Luchino Visconti, dobbiamo convenire con il critico Vito Zagarrio che molti registi e sceneggiatori neorealisti impararono il mestiere e plasmarono la propria personalità autoriale «proprio “sotto”, “durante” o “nonostante” il regime fascista» (V. Zagarrio, Schizofrenie del modello fascista, in Storia del cinema italiano 5: 1934-1939 / Centro sperimentale di cinematografia; a cura di Orio Caldiron, Marsilio, Edizioni di Bianco & nero, 2006).

[3] Circa la possibilità del cinema moderno di rompere con le forme narrative del cinema classico, Cesare Zavattini afferma «mentre prima il cinema da un fatto ne faceva nascere un altro, poi un altro ancora e ogni scena era fatta e pensata per essere subito abbandonata […] oggi, pensata una scena, sentiamo il bisogno di “restare” in quella scena poiché sappiamo che ha in sé tutte le possibilità di echeggiare lontanissimamente» (C. Zavattini, Polemica col mio tempo, Bompiani, Milano, 1997, p. 79).

[4] Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini è una delle opere fondative della modernità cinematografica non solo perché materializza al meglio il problema dello sfaldamento dei legami tra il soggetto e un mondo incomprensibile (la guerra, la povertà, la disoccupazione impediscono all’uomo contemporaneo di generare qualcosa di stabile e unitario), ma anche perché mostra come il personaggio neorealista, moderno Jacques le fataliste (il protagonista del celebre romanzo di Denis Diderot del 1796), per riorganizzare la sua esistenza, non possa far altro che proseguire il suo percorso di erranza-veggenza (veggenza intesa come attitudine visiva).

[5] C. Zavattini, op. cit., p. 97.

[6] Ivi, p. 81.

[7] Ora, a ricordarci, direi autolesionisticamente, la natura virtuale dell’immaginario presente nel film Casanova, concorrono svariati fattori testuali: in primo luogo l’ironia feroce con cui l’autore ci presenta il suo personaggio e dunque, insieme al personaggio (che finirà per individuare in un automa la propria donna ideale), l’intera prospettiva di sguardo adottata dal film; in secondo luogo la radicalità dei procedimenti di seduzione ed esibizione inscritti all’interno dell’opera, smascherati così in quanto tali agli occhi e alla coscienza dello spettatore; in terzo luogo un ulteriore testo filmico felliniano, di poco successivo alla realizzazione di Casanova e vicino ad esso per le tematiche affrontate: La città delle donne, che appare innanzitutto come un’occasione di disvelamento dei potenziali retroscena individuali nascosti dietro a Casanova. A determinare questo potenziale disvelamento sono alcuni mutamenti rilevanti nei connotati dei personaggi coinvolti nel plot rispetto ai tratti dei personaggi di Casanova: muta la qualità dell’esperienza sessuale del protagonista maschile, qui segnata dalla frustrazione, dalla persecuzione e dalla derisione da parte delle donne oggetto del desiderio; le donne a loro volta da una posizione di soggezione passiva alle istanze dell’immaginario erotico del maschio, si faranno soggettività minacciose e inaccessibili alla lettura e alla comprensione da parte del soggetto maschile, mentre in una prospettiva (anch’essa autolesionistica) di dissolvimento radicale delle estetizzanti coordinate di riferimento dello sguardo felliniano, una messa in scena manieristica, caotica e selvaggiamente ridondante sembrerebbe configurare nel segno del fiaccamento e della sterilità la soggettività creativa dell’autore.

[8] In risposta alle critiche ricevute al momento della comparsa sugli schermi italiani del suo Ossessione (1943), Visconti ebbe a dire «al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. Di tutti i compiti che mi spettano come regista, quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori; materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che, chiamati a viverla, generano una nuova realtà, la realtà dell’arte. Perché l’attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Su di esse cerco di basarmi, graduandole nella creazione del personaggio: al punto che l’uomo-attore e l’uomo–personaggio vengano ad un certo punto ad essere uno solo» (Gianni Rondolino, Storia del cinema, UTET Università, Torino, 2000, p. 381).

[9] Ricollegandosi all’idea di sottrarre la scena al suo sviluppo «centrifugo», interrompendo quindi il suo prolungamento diretto e immediato in altre scene (come affermava Zavattini), un autore moderno come Wim Wenders, nel finale di Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge, 1982), elabora un dialogo tra il regista europeo e il produttore americano, sottolineando come esista una netta contrapposizione fra un cinema, appunto, centrifugo, senso-motorio, costituito da intrecci e azione, e uno centripeto, ottico-sonoro puro, dell’esistenza e dell’incontro (Roberto De Gaetano, Teorie del cinema in Italia, Rubbettino Editore, 2005, p. 36).

[10] Dal secondo dopoguerra sino alla cesura degli anni Sessanta, la riflessione cinematografica sviluppata in Italia (si pensi ad autori come Umberto Barbaro e Luigi Chiarini) è stata segnata da un orizzonte di problemi tipicamente crociani: solo il filosofo Galvano Dalla Volpe ha anticipato quella “rivoluzione semiotica” (al filosofo in questione si debbono le prime utilizzazioni in Italia dei testi di Ferdinand de Saussure e di Louis Hjelmslev), che a partire, appunto, dal decennio della rivoluzione giovanile, avrebbe mutato per sempre la nostra idea della settima arte.

[11] Proprio Godard, regista tra i più importanti della Nouvelle Vague, nonché del cinema internazionale, sarà costantemente guidato dalla disposizione di voler cogliere «l’essenza del concreto fluire quotidiano, con il progressivo sviluppo di una riflessione metalinguistica sul cinema in quanto veicolo di espressione e rappresentazione oltre che opportunità di «apprensione» diretta della realtà» (Renzo Gilodi, Nouvelle Vague. Il cinema, la vita, Editore, Effatà, 2007, p. 20).


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