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Ontologia dell’arte (intermezzo): Giulietta, il sole e Immanuel Kant

Ontologia dell’arte (intermezzo): Giulietta, il sole e Immanuel Kant

Ott 08

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Filosofia dell’arte

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Se si potesse fare una classifica delle metafore più famose del mondo, forse il primo posto sarebbe occupato dai seguenti versi di Shakespeare:

But, soft, what light through yonder window breaks?

It is east, and Juliet is the sun

(Romeo and Juliet, Atto II, scena II)

Romeo sta aspettando trepidamente che il volto di Giulietta si affacci dal balcone di casa Capuleti. La sua amata giunge e ne è folgorato: il balcone è a est e Giulietta non può che essere il sole che squarcia la notte. A rendere questa metafora particolarmente famosa è l’assommarsi della sua estrema semplicità con la miriade di pensieri impliciti che trascina con sé.  Giulietta è il sole, perché la giornata di Romeo si apre e si chiude pensando a lei; Romeo, come ogni innamorato ancora tra le nuvole, pensa di essere l’umile satellite della propria amata stella; Giulietta, come il sole, dà vita e felicità: ogni pensiero malinconico viene scacciato alla sua radiosa presenza. Potremmo andare ancora avanti nell’enumerazione dei pensieri a cui dà adito la metafora shakespeariana. Con un gioco interno (una metafora sulla metafora) potremmo dire che il passo citato è solo il seme della metafora completamente sviluppata, la quale è, in realtà, un enorme albero le cui radici e le cui fronde si diramano in innumerevoli vie non sempre facili da descrivere. La cosa curiosa è che non mi interessa parlare della struttura delle metafore, ma di Immanuel Kant.

Nella Critica del Giudizio si arriva a un punto in cui Kant è costretto a discutere le arti belle e si trova con una infida gatta da pelare.[1] Fino al paragrafo prima il filosofo di Königsberg ha sostenuto che la bellezza è un sentimento di piacere disinteressato. Avere un interesse per qualcosa significa porlo come proprio scopo (es.: se sono interessato a cenare bene, cerco di procacciarmi un buon cibo). Tuttavia, qualcosa può diventare uno scopo, solo se ne ho un concetto ben preciso (es.: se mi propongo di mangiare bene, devo sapere cosa può soddisfare il mio interesse). La bellezza, però, è disinteressata e, dunque, non può dipendere da alcun concetto preesistente all’oggetto che mi dà piacere. Nelle parole di Kant:

È bello ciò che piace universalmente senza concetto[2]

Banalizzando un po’ la teoria di Kant, potremmo dire che la bellezza è un incontro fortuito, un’offerta gratuita della natura: non posso sapere a priori cosa troverò bello. L’arte, però, complica enormemente le cose: la produzione artistica è piena di concettualità. Un artista deve sapere cosa vuole ottenere dalla propria materia, sia essa tempera, marmo, suono o linguaggio. In arte esistono progetti, programmazioni, prove e correzioni: una serie di tappe in cui l’artista si pone degli scopi da raggiungere (es.: migliorare o correggere l’opera, raggiungere la perfetta esibizione della propria idea). Tutto questo processo sembra eludere la casualità e la gratuità della bellezza: l’artista produce un oggetto con la verisimile intenzione che possa piacere. Come è possibile che l’arte sia bella? Kant fuoriesce dall’aporia tracciando una strada che farà epoca: l’arte è la produzione del genio. Il genio non è un pedante osservatore di regole tecniche e accademiche; non si pone scopi prefissati o programmati. Il genio è un talento naturale: le facoltà naturali del genio sono così ben accordate e in sintonia, sono così potenti e vitali da creare da sé regole artistiche uniche e inaspettate. La regola di un genio non è la blanda ripetizione di concetti o scopi rimasticati, ma l’emergere naturale di un unicum artistico imprevedibile. Tramite il genio, anche l’arte si arma delle caratteristiche di gratuità e casualità di cui è fornita la bellezza naturale. L’arte bella è gratuita perché è altrettanto gratuito il dono che ci regala la natura, dotando un singolo individuo di quelle facoltà che ne fanno un genio.

Ora dobbiamo chiederci, però, cosa faccia concretamente un genio. La risposta di Kant è tranchant:

Si può anche definire il genio la facoltà delle idee estetiche (ästhetischer Ideen) [3]

Una domanda chiama l’altra: cosa sono queste misteriose idee estetiche? La risposta più ovvia, e anche quella più corretta, è: le idee estetiche sono le opere d’arte. O meglio: le opere d’arte sono l’incarnazione delle idee estetiche. Vedremo nel prossimo post quanto la filosofia dell’arte di Danto sia simile a questa posizione e quanto sia stato utile lavare i panni della filosofia contemporanea in acque kantiane. Ma approfondiamo ulteriormente il punto con una citazione dalla Critica del Giudizio:

Per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione [Vorstellung der Einbildungskraft], che danno a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o concetto possa essere loro adeguato e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili. [4]

Kant non è famoso per i suoi esempi e anche in questo caso non si smentisce. Uno è decisamente banale, l’altro è un omaggio ‘obbligatorio’ a Federico il Grande [5]. In entrambi i casi abbiamo a che fare con una figura retorica simile alla metafora shakespeariana da cui siamo partiti e che impiegheremo per illustrare il passo kantiano.[6] Anche i filosofi più profani dovrebbero aver colto la somiglianza tra quello che Kant afferma nel brano sopracitato e quanto ho cercato di descrivere a proposito della metafora di Romeo. Il filosofo di Königsberg dice che un’idea estetica (i.e.: un’opera d’arte) è una rappresentazione [7] che non è facile riassumere o descrivere. A dir la verità, Kant afferma che è impossibile darne una descrizione completa. Allo stesso modo, il campo di relazioni semantiche instaurato dalla metafora di Romeo è sempre ulteriormente espandibile: si possono aggiungere sempre nuovi paragoni e descrizioni pertinenti del rapporto tra Giulietta e il sole. Secondo Kant, qualsiasi concetto o pensiero in cui provo a ingabbiare l’idea estetica non è sufficientemente capiente: ci sarà sempre qualcosa di ulteriore che mi è sfuggito e che potrà essere specificato. Parimenti non è sufficiente dire che Giulietta è il sole perché illumina la vita di Romeo: lo è anche perché gli dà vita, perché lo sveglia dalla malinconia, perché la sua vita ruota intorno a lei, etc. La metafora shakespeariana è così potente, soprattutto perché è estremamente calzante: Romeo coglie l’espressione più appropriata per rappresentare il miscuglio di sentimenti che gli anima il cuore. Kant, da par suo, afferma che

Il genio consiste propriamente in quella felice disposizione […] per la quale si trovano idee per un concetto dato, e d’altra parte si trova per esse l’espressione giusta con cui si può comunicare agli altri lo stato d’animo che ne risulta. [8]

Se si accettano questi (prolungabili) parallelismi, allora potremmo comporre un’enorme analogia che riassuma brevemente l’intero post. Kant considera l’arte come l’incarnazione di idee estetiche, le quali sono, a loro volta, costruite sulla falsariga delle strutture metaforiche. Questo post non propone un problema di filosofia dell’arte a sé stante, ma vuole essere piuttosto propedeutico a una fruttuosa discussione dell’ontologia dell’arte di A. C. Danto che, probabilmente con grande stupore dello stesso filosofo americano, è estremamente simile a quella proposta da Kant. Sperando di aver premesso il noto all’ignoto (e non viceversa), ci volgeremo dal prossimo post su lidi più analitici.

Note

[1] I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari, 2002, §§ 43-sgg. (D’ora in poi la Critica del Giudizio sarà indicata dalla sigla KdU, seguita eventualmente dal paragrafo e dalla pagina citati).

[2] KdU, § 9, p. 105.

[3] KdU, p. 367.

[4] KdU, § 49, p. 305.

[5] KdU, § 49, p. 309.

[6] Shakespeare batte Federico il Grande per KO tecnico alla prima ripresa 😉

[7] L’originale tedesco dice: Vorstellung!! Quanto avremo da dire su questo punto nei prossimi post!

[8] KdU, § 49, p. 311.


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