Ontologia dell’arte II: l’arte in una scatola
Ontologia dell’arte II: l’arte in una scatola
Set 10[ad#Ret Big]
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Vi propongo di osservare con la massima attenzione tre oggetti molto diversi tra loro:
La Fig.(1) rappresenta una scatola di pagliette Brillo. Si tratta di pagliette in lana d’acciaio pre-insaponate, usate dalle casalinghe di tutto il mondo negli anni ’50-‘60 per lavare i propri piatti. Il grande successo commerciale del prodotto dipese anche dall’accattivante scatola bianco-rosso-blu in cui era confezionato. Il brand del prodotto è rappresentato con lettere allegre e colori vivaci che ricalcano il suono esotico e latino (per orecchie anglofone) della parola ‘Brillo’. Le linee curve smussano l’aggressività delle scritte pubblicitarie (‘New!’, ‘Shines Alluminium Fast’) e conferiscono un tono urbano e amichevole alla scatola. Non ci deve sorprendere che il loro designer sia stato un famoso pubblicitario di nome J. Harvey (per citare solo un’altra sua creatura, ricordo i pacchetti di Marlboro e Philip Morris). Harvey è stato un espressionista astratto di fama minore, oscurato dalle stelle di Pollock, Still, De Kooning, Newman, Rothko, Motherwell e altri. Impossibilitato a guadagnarsi da vivere con l’arte, la coltivò come hobby e lavorò nel campo del design pubblicitario. Per un’ironia della sorte, le sue scatole Brillo erano destinate a diventare una delle icone dell’arte del XX secolo.
Si osservi la Fig. (2):
La fotografia ritrae un giovane Andy Warhol circondato da alcune sculture appena esibite. Il set della fotografia è la Stable Gallery di New York, lo spazio dove Warhol espose le sue opere per ben due volte nel Novembre del 1962 e nell’Aprile del 1964. A quel tempo, l’artista newyorkese non era ancora l’icona pop che sarebbe diventato negli anni ’70 e ’80, ma cercava di trovare la strada per entrare nelle grazie di critici e galleristi come E. Ward e L. Castelli. Il percorso di Warhol è agli esatti antipodi di quello di Harvey: Harvey è un pittore espressionista astratto, costretto dalla vita a disegnare le scatole di Brillo, mentre Warhol è un pubblicitario (copertine per magazines, riviste, album (i Velvet Underground ancora ringraziano)) che riesce a sfondare nel mondo dell’arte esibendo le statue della Fig. (2): le scatole Brillo!! C’è una differenza infinita tra le scatole di Harvey e quelle di Warhol: le prime sono semplici oggetti, mentre le seconde sono un’opera d’arte che ha come soggetto le scatole di Brillo. Warhol fu il poeta della società americana commerciale: con le sue opere riuscì a celebrare la bellezza del quotidiano globalizzato della tarda era capitalista (cfr. le scatole Brillo e Kellogg’s, le lattine di Coca e di zuppa Campbell) e a intuire l’aura di gloria che circondava le nozioni di fama e di denaro (si vedano le icone di Marylin e delle banconote da un dollaro). La sua arte non è stata solo glorificazione, ma anche critica indiretta: Warhol ci obbliga a sostare davanti alle cose che ci circondano e a rivalutarle come oggetti a sé stanti non immersi nel rapido flusso del commercio. Non si limita a rappresentare in maniera epica Vip e denaro, ma democratizza (rendendolo effimero) il concetto di fama (si ricordi il suo famoso detto: ‘Ognuno ha diritto a un quarto d’ora di celebrità’). Si tratta di belle parole, ma rimaniamo confusi quando siamo costretti a notare che tra le scatole di Harvey e quelle di Warhol non c’è nessuna differenza percepibile.[1] Perché una è un oggetto commerciale e l’altra un’opera d’arte? Potremmo contentarci di questo paragone, ma preferisco introdurne un terzo [Fig. (3)]:
La terza immagine raffigura l’opera Not Andy Warhol dell’artista appropriazionista Mike Bidlo. Quest’arte consiste nel far proprie (riprodurre, imitare, copiare, fotografare, usare) immagini, frasi, oggetti e opere d’arte. Lo scopo non è quello di focalizzarsi su di essi, ma di impiegarli come commento su questioni sociali, teoriche e filosofiche. Alcuni noti artisti di questo movimento sono Barbara Kruger (che cita alcuni detti filosofici, storpiandoli per poterli applicare alla società dei consumi) e Sherry Levine (che duplica fermo-immagine di film hollywoodiani impiegando sé stessa come protagonista: in questo modo riesce a commentare indirettamente la condizione della donna contemporanea). L’arte appropriazionista si basa sulla nozione di ‘citazione obliqua’. Una citazione diretta riporta fedelmente le parole di chi ho citato nel contesto in cui sono state proferite. Se Marco ha detto a Maria ‘non ne voglio più sapere di te’ e se voglio citare direttamente Marco, allora devo riportare le sue esatte parole ricordando, nel caso, che erano rivolte a Maria, etc. Molto più comune, invece, la citazione obliqua. Si tratta di una nozione polimorfa: una citazione obliqua può riportare le stesse parole, ma in un contesto diverso (il manager coraggioso che cita Cesare: ‘il dado è tratto’); delle parole diverse, nel medesimo contesto; delle parole diverse in un contesto differente, che, tuttavia, mantengano una lontana parentela con la citazione originale (questo modello è particolarmente usato in ambito pubblicitario). La citazione obliqua è un fenomeno così proteiforme che anche i logici più rigorosi hanno alzato bandiera bianca e non si cerca quasi più di formalizzarne la struttura. Essa, però, possiede una caratteristica accertata: come nelle metafore, il significato letterale della frase citata si trasforma nella citazione obliqua. O quanto meno le implicazioni pragmatiche non possono essere le stesse (il manager che dice ‘Il dado è tratto’ non sta dando inizio ad una guerra civile). Bidlo è un’artista appropriazionista e nel suo Not Andy Warhol fa pieno uso delle caratteristiche della citazione obliqua. Lo stesso titolo esplicita la funzione di commento: infatti, sebbene le scatole di Bidlo siano identiche a quelle di Warhol, tuttavia, i significati convogliati dalla citazione appropriazionista sono estremamente diversi dall’originale e quindi l’opera di Bidlo ‘non è un Andy Warhol’. Bidlo propone l’opera negli anni ’90 come apprezzamento e citazione dell’arte pop, un movimento del passato che ormai fa parte della storia dell’arte, mentre Warhol cerca di aprirne la strada; Warhol decontestualizza un oggetto commerciale, un ready-made duchampiano, mentre Bidlo sta ricontestualizzando un’opera d’arte affermata. L’opera di Bidlo sarebbe stata impensabile all’epoca di Warhol (sarebbe stato un plagio, non la citazione di un maestro), così come l’opera di Warhol non avrebbe senso all’epoca di Bidlo (sarebbe terribilmente demodé). Tutte questi discorsi possono essere continuati se si segue la linea tracciata da Borges nella sua celebre novella Pierre Menard, autore del Chisciotte[2]. Il punto importante è che, ancora una volta, abbiamo due oggetti indistinguibili e, allo stesso tempo, due opere d’arte diverse.
Riassumendo: abbiamo tre oggetti che, nonostante siano identici dal punto di vista percettivo, sono totalmente differenti l’uno dall’altro: uno è un semplice oggetto (la scatola di Brillo di Harvey), gli altri due sono opere d’arte dal significato radicalmente diverso (Warhol e Bidlo).[3] Com’è possibile tutto ciò? Dal prossimo post in poi cercheremo di vagliare una ad una le possibili risposte a questa domanda. Ciò che mi preme ora sottolineare è che l’arte contemporanea incorpora nella propria estensione esempi che mettono in crisi l’ipotesi James-Malraux (cfr. il post precedente): non sembra possibile discriminare su base semplicemente percettiva gli oggetti del mondo dalle opere d’arte. Da questa conclusione vi propongo il quesito odierno:
Cosa distingue le opere d’arte dai semplici oggetti mondani?
Con l’ipotesi James-Malraux sembra affondare anche l’esempio propostoci da Kennick. In tal caso, i neo-wittgensteiniani potrebbero avere torto e una definizione sarebbe necessaria per riconoscere qualcosa in quanto arte. Nel prossimo post discuteremo la prima delle definizioni avanzate per distinguere la categoria delle opere d’arte. Si tratta della famosa ‘teoria istituzionale’.
Note:
[1] In realtà tra i due tipi di scatole ci sono molte differenze, come fa notare anche A. C. Danto, forse il filosofo dell’arte più influenzato dall’opera di Warhol. Innanzitutto, Warhol si era convinto che il cartone con cui erano fabbricati gli originali di Harvey “non era una superficie adatta” per produrre l’effetto “ripetitivo, meccanico” creato “dall’immagine degli scaffali nei supermercati” (A. C. Danto, Andy Warhol, trad. it. P. Carmagnani, Einaudi, Torino 2010, p. 50). Per cui le scatole di Brillo di Warhol sono di legno serigrafato, mentre quelle di Harvey sono in cartone. Inoltre, a Warhol non interessava produrre un lavoro completamente ‘pulito’: “a volte si formavano grumi sul telaio e il colore poteva schizzare o colare, ma Andy non buttava mai niente. Per lui, queste ‘imperfezioni” facevano parte del processo e le scatole della Factory [lo studio di Warhol] non avrebbero in realtà mai superato il controllo di qualità che esiste in una fabbrica vera” (Ivi, pp. 57-58). Nonostante queste differenze non è impossibile immaginarsi le due scatole come perfettamente indiscernibili, senza che questo muti la sostanza della questione.
[2] Cfr. J. L. Borges, “Pierre Menard, autore del ‘Chisciotte’”, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, voll. 2, Mondadori, Milano 1984, vol. I, pp. 649-658.
[3] Il metodo del paragone tra indiscernibili è stato introdotto in filosofia dell’arte da A. C. Danto. Per un approfondimento e per ulteriori esempi rimando a: A. C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, trad. it. S. Velotti, Laterza, Roma-Bari 2008.