Filosofia della storia dell’arte IV: Pluralismi
Filosofia della storia dell’arte IV: Pluralismi
Mag 19Post precedente: Filosofia della storia dell’arte III: fine della Storia.
Nel post precedente abbiamo lasciato i White Paintings di Rauschenberg [Fig. 1] al di fuori di ogni contesto espositivo. Proviamo ora a considerarli all’interno di una sala di un museo. Rauschenberg ha lisciato in maniera ossessiva la superficie delle tele che splendono di un bianco immacolato. Questa caratteristica è così importante che il MOMA è vincolato a riverniciarli ogni qualvolta debbano essere esposti. Si può supporre che il bianco indichi uno stato embrionale di pura possibilità artistica, un’origine da cui può scaturire potenzialmente l’intero mondo pittorico. Da questa prospettiva l’opera di Rauschenberg è un analogo della pagina bianca dello scrittore, la quale, però, è stata investita della sacralità che circonfonde ogni mito riguardante l’origine. Si noti, infatti, come i dipinti del pittore americano esibiscano la verticalità propria delle pale d’altare e che, disposti l’uno accanto all’altro, formino uno strano settetto, forse a parodia dei trittici e dei quadrivi di un Mantegna, di un Grünewald o di un Bosch [cfr. Fig. 2, M. Grünewald, Altare di Isenheim, 1512-1516]. Anche il numero sette è sospetto e potrebbe indicare che ogni riquadro rappresenta una sorta di chora primordiale per ognuna delle sette arti tradizionali.
Tuttavia, questa interpretazione simbolica e quasi esoterica tralascia un dato molto semplice: la prima cosa che dovrebbe balzare agli occhi dinnanzi ai quadri di Rauschenberg, esposti in un salone sufficientemente illuminato, è banalmente la propria ombra. L’idea del pittore americano, infatti, è stata proprio quella di produrre degli oggetti che fossero intrinsecamente correlati all’ambiente in cui sono esposti: a seconda dell’illuminazione e del numero degli spettatori i White paintings assumono forme sempre nuove e sorprendenti, ammesso che il gioco di luci e ombre sulla loro superficie sia ritenuto sufficientemente interessante da catturare l’attenzione del pubblico. L’analogia tra l’opera di Rauschenberg e la pagina bianca è ancora valida, ma va corretta: non si tratta di una semplice e pura potenzialità, ma di infinite possibilità, da attualizzare di volta in volta nella singola esperienza del dipinto da parte del singolo spettatore, così come la pagina bianca può essere l’incipit di infiniti romanzi di singoli autori differenti. Ammesso che questa interpretazione contestuale riesca a cogliere l’intenzione dell’artista, non possiamo fare a meno di chiederci che razza di dipinti siano i White paintings. Siamo preparati, con Vasari, a entrare in un mondo finzionale e possiamo osservare, seguendo Greenberg, le proprietà formali di una tela. Non siamo pronti, però, a chiamare ‘pittura’ un’opera le cui caratteristiche collimano in minima parte con le componenti ‘fisiche’ del quadro (e scusate il lessico neopositivista). L’opera di Rauschenberg, infatti, non è (non è semplicemente) il dipinto in quanto ente materiale, ma la relazione che si instaura tra esso e il pubblico, l’esperienza a cui dà origine. A partire da queste elucubrazioni – che potrebbero dare del filo da torcere a qualsiasi ontologo (cos’è l’opera? Dov’è? È singola o molteplice?, etc.) – si può vedere che i White paintings, apparentemente un semplice momento della narrazione pittorica, in realtà si inseriscano in filoni storico artistici differenti. Come la letteratura e il teatro dipendono dall’interazione tra oggetto fisico e pubblico (‘Anna Karenina’ non è né la carta che stringiamo tra le mani, né l’ebook appena scaricato, ma qualcosa che avviene durante la lettura) e come l’architettura o il karesansui, la loro struttura ontologica è fortemente contestuale, perché muta a seconda dello spazio in cui sono accolti. In sintesi quest’opera è un ibrido che appartiene a classi artistiche differenti: forse ne rappresenta l’intersezione o forse è un conglomerato di caratteristiche proprie di generi differenti. In quanto apolidi, i White paintings non si muovono lungo i binari di un’unica Storia ben definita teleologicamente, ma ‘mixano’ storie particolari provenienti da narrazioni apparentemente lontane l’una dall’altra. Non c’è dunque una Storia che li possa raccontare, ma molte storie con la ‘s’ minuscola. E se qualcuno dovesse trovare spaesante la situazione è meglio che si metta l’anima in pace: ‘è il pluralismo contemporaneo, bellezza. E tu non ci puoi fare niente … niente’ direbbe un redivivo Humphrey Bogart.
Non c’è quasi nessuna opera d’arte contemporanea che esuli dal pluralismo inaugurato grosso modo all’epoca dei White Paintings. Facciamo altri due esempi, solo per dare maggiore concretezza alla evidente pervasività del pluralismo. Prendiamo la Spiral Jetty di Robert Smithson [1970, Fig. 3]:
Si tratta di un’opera di architettura? È una scultura? È un’opera che plasma il territorio, come il giardinaggio? La risposta, ora ovvia, è: nessuna delle tre cose, se prese singolarmente, ma tutte e tre, se prese assieme.
Un altro esempio, da una tradizione totalmente differente, è il Cloud Gate di Anish Kapoor [2004, Fig. 4]:
Apparentemente una scultura, ma senza alcuna caratteristica propria della scultura tradizionale: manca del piedistallo che separa l’opera dal pubblico, non c’è segno di lavorazione e, soprattutto, l’opera non è tanto l’immenso ‘fagiolo’ (‘bean’ lo chiamano gli abitanti di Chicago), ma la cangiante riflessione del paesaggio sulla sua superficie curvilinea.
Viviamo dunque in un’epoca di storie plurali; un’epoca in cui le tradizioni si intersecano per creare uno strano, ma interessante melting pot in cui non c’è alcuna narrazione che sia egemone. Su questa base molti filosofi dell’arte – tra cui, ad esempio, Noel Carroll e Gregory Currie [1] – hanno costruito delle ontologie narrative sulla nozione di ‘arte’. Un oggetto sarebbe ‘arte’ quando soddisfa determinate condizioni narrative: è possibile, per esempio, ricondurla a una o più narrazioni tradizionali e può essere descritta attraverso certe proposizioni narrative particolarmente rilevanti (es: ‘l’opera x prende spunto dall’opera y’). Sebbene questa ontologia dell’arte abbia le sue fondamenta in una filosofia analitica della storia (dell’arte) che abbandona le narrazioni sostanziali di Vasari e Greenberg per abbracciare il pluralismo contemporaneo, si tratta, ovviamente, di una teoria istituzionale sotto mentite spoglie. Dopotutto, solo certe persone istituzionalmente inserite (curatori, galleristi, etc.) possono legittimare la rilevanza delle proposizioni narrative sopraccitate. Questa soluzione non può soddisfarci se ricordiamo che ci siamo imbarcati nella ricognizione delle filosofie della storia dell’arte per poterci sbarazzare del residuo istituzionale insito nella teoria di Danto. Forse è arrivato il momento di sondare l’ipotesi più estrema, secondo cui la nostra epoca non è solo pluralista, ma anche post-istorica.
Note:
[1] Cfr. per esempio, N. Carroll, Philosophy of Art, Routledge, Oxford 2004.