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Filosofia della storia dell’arte I: Vermeer e Vasari

Filosofia della storia dell’arte I: Vermeer e Vasari

Feb 25

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Filosofia dell’arte

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In precedenza abbiamo potuto constatare che la definizione di ‘arte’ fornita da Danto dipende da alcune considerazioni storiche: le opere d’arte sono significati incorporati (embodied meanings) prodotti da persone (gli ‘artisti’) che si trovano in una corretta posizione narrativa rispetto all’opera. Tra l’orinatoio prodotto da Duchamp (Fountain [1917], Fig. 1) e un esemplare indiscernibile esposto dall’estensore di questo post, la differenza consisterebbe nel fatto che Duchamp è stato, prima di Fountain, un pittore cubista, apparteneva al circolo di artisti formato da Apollinaire, Picabia, Delaunay e Léger, esponeva al Salon des Indépendants ed era a conoscenza delle più importanti teorie sull’arte del periodo, mentre chi sta scrivendo non ha prodotto nulla di artisticamente rilevante ed è, al massimo, uno scribacchino della filosofia.

 

Fountain Duchamp

La posizione di Danto, però, è pericolosamente vicina a quella istituzionale da cui vuole discostarsi: egli crede che vi siano ragioni ontologiche per distinguere un’opera d’arte da un mero oggetto reale e che le considerazioni storico-narrative siano solo accidentali, se non di contorno. Per liberarsene è costretto a elaborare una complessa filosofia della storia dell’arte, ossia una teoria che indaghi il peso delle teorie storico-narrative sulla costituzione delle opere d’arte. Egli isola tre diversi macro-approcci alla questione: la versione di Vasari in cui la posizione storica di un’artista dipende dalla verisimiglianza della sua arte, la versione di Clement Greenberg in cui un’artista si colloca narrativamente a seconda della purezza della propria arte e la versione di Danto stesso in cui la locazione storica perde di ogni importanza. Le corrispettive filosofie della storia dell’arte sono quella realista, quella Modernista e quella post-storica. Per completezza le affronteremo una alla volta.

Inizieremo con un dipinto arcinoto di Vermeer, L’allegoria della pittura (1666, Fig. 2):

 

Vermeer Allegoria della pittura

Il quadro è allegorico, come suggerisce anche il soggetto del dipinto nel dipinto: la modella dovrebbe rappresentare Clio, la musa della Storia, così come la carta geografica alla parete è un’esatta riproduzione dei Paesi Bassi che – in periodo ‘caldo’ come la fine del Seicento – equivale a un’istantanea bidimensionale della situazione storica corrente. Sebbene il Vermeer nel dipinto stia rappresentando la Storia, il Vermeer pittore non ne è interessato. La presenza di una modella che personifica Clio è solo un segnale per avvertirci che il quadro ha una valenza allegorica; un’allegoria che non è diretta alla Storia, ma alla Pittura. Il soggetto de L’allegoria della pittura, infatti, è semplicemente Vermeer che dipinge. L’allegoria elaborata da Vermeer cerca di condensare in un dipinto l’intera impresa pittorica e può essere sintetizzata da due decisioni prese dall’artista olandese nel trattare il proprio soggetto. Sono due punti molto importanti perché ci permettono di riassumere l’intera ‘filosofia’ della pittura seguita dagli artisti occidentali da Giotto a Manet.

1) In primo piano una tenda viene sollevata e lascia libero lo spettatore di ‘spiare’ la scena dipinta.

2) Il pittore volta le spalle al pubblico: è assorbito nella propria opera rappresentativa (pensate quanta fatica dovrà costargli dipingere quella cartina appesa alla parete!).

L’arte, quindi, è uno spiraglio aperto sulla realtà (1) e l’artista non deve preoccuparsi dell’effetto sul pubblico, ma della verosimiglianza della rappresentazione (2). Come si intuisce anche dal dipinto di Vermeer – che ingloba la Storia solo per negarla come soggetto – con la parola ‘realtà’ non si intende una serie di accadimenti storicamente determinati, ma una dimensione connotata da uno stretto rapporto di somiglianza con gli oggetti presenti in questo mondo. In questo senso anche il dipinto di Vermeer – che è un’allegoria – è realistico, così come lo sono quelli della maggior parte degli artisti da Masaccio a Courbet, sebbene nessuno di essi rappresenti un evento che sia realmente accaduto. Se è vero che l’arte si apre su mondi finzionali, essa è ‘realistica’ proprio perché questi mondi sono simili a quello in cui viviamo noi stessi. Il realismo artistico è una dottrina antica quanto l’arte stessa, ma fu solo con l’opera di Vasari (Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, da Cimabue insino a’tempi nostri [1550]) che diventa il motore della storia dell’arte. Secondo Vasari, l’arte consiste in una progressiva conquista della verosimiglianza: il sistema di tecniche, cliché e nozioni pratiche che dà forma alle varie arti e che viene tramandato da maestro ad allievo è, di generazione in generazione, raffinato per sfociare in un’ideale replica della realtà. Ogni artista avrà a sua disposizione degli strumenti più precisi per riprodurre la realtà rispetto a quelli di cui disponevano gli artisti dell’epoca precedente. Se, ad esempio, Giotto porta al limite la tecnica dello scorcio è da questo limite che può poi svilupparsi la pittura di Masaccio che innesta sullo scorcio la prospettiva scientifica e fa progredire qualitativamente la pittura verso una rappresentazione più coerente della realtà. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma lo schema vasariano è semplice e può costituire una sorta di storia dell’arte ‘filosofica’. L’aggettivo tra apici serve a sottolineare che la struttura storica ricostruita dal Vasari ha a proprio fondamento un assunto filosofico che abbiamo visto all’opera ne L’allegoria della pittura di Vermeer: l’arte è una rappresentazione verisimile della realtà. Vasari ‘si limita’ ad aggiungere dinamicità alla posizione filosofica tradizionale; se la riproduzione esatta della realtà è un telos ideale, allora il movimento descritto dalla successione dei vari artisti è un processo di avvicinamento a quel telos. Apparentemente la differenza tra Vermeer e Vasari è minima, ma, in realtà, è enorme: il pittore italiano inserisce nel mondo dell’arte la storia – che ironia, se si pensa al dipinto dell’olandese! – e dà origine a un mondo narrativo inaudito in cui ogni artista è incasellato in uno stadio preciso dell’evoluzione di un’arte; un’evoluzione che dovrebbe avere come sua ideale apoteosi il ricongiungimento con la realtà. Non è un caso che, ad esempio, con la comparsa della fotografia, molti teorici pensarono che la pittura fosse giunta al capolinea. La profezia non si avverrò in parte perché il mondo narrativo strutturato dal Vasari venne sostituito da una filosofia della storia dell’arte differente che oggi conosciamo con il nome di Modernismo e che ebbe in Greenberg il suo cantore. A questa impostazione ci rivolgeremo nel prossimo post.


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