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Sul filo dell’attesa del sacrificio di musikè alla silente ragione. Un breve viaggio nella filosofia della musica di Platone (4)

Sul filo dell’attesa del sacrificio di musikè alla silente ragione. Un breve viaggio nella filosofia della musica di Platone (4)

Mag 09

 

Articolo precedente: Sul filo dell’attesa del sacrificio di musikē alla silente ragione. Un breve viaggio nella filosofia della musica di Platone (3)

 

6. Musikè come “filosofia in azione”

Mi preme tuttavia fare anche un altro ragionamento. La formula “filosofia in azione”, privilegiata da Christopher Rowe e inverata da ciò che dice Platone nella Lettera VII (che brutalmente sintetizzo in alcune parole qui: la filosofia non può essere “comunicata”, appresa e trasmessa allo stesso modo del sapere di altre scienze o tecniche, ma va scoperta, confrontata, discussa, accesa nell’anima: è insomma un modus operandi dell’anima) esprime esattamente ciò che la musica ha il compito di fare nel suo rapporto con la filosofia: inverarla, renderla comunicabile, trasmissibile. «Spiegare ciò che accade quando qualcuno vive un’esperienza musicale mostra il modo in cui Platone concepisce le entità e i meccanismi che sono all’interno della ricezione della musica: anima e corpo, intelletto, emozioni, passioni e percezioni» [1], dice Pelosi.

L’autentico interlocutore della musica, in Platone, è l’anima. Ed è la musica ciò che primariamente contribuisce alla cura filosofica dell’anima. Così la filosofia attraverso la musica si prende cura dell’anima, ma ciò, sottolinea Pelosi, mentre l’anima è legata al corpo [2]. La musica diventa allora “formazione dell’anima”, orientata alla filosofia. E proprio nel suo essere orientata ad essa, la rende possibile, la invera e la trasmette nell’unico modo in cui possa, la filosofia, essere trasmessa. Ma in che cosa consiste questo “prendersi cura”? In concreto, cosa opera sull’anima? «Sono precisamente i disordini causati all’anima dalla sua connessione con il corpo che la musica cerca di risolvere; perché è solo attraverso l’essere legata al corpo che l’anima può essere curata dalla musica» [3], afferma Pelosi.

Tuttavia, la musica è, in Platone, un Giano bifronte: è anche pericolosa, se non adeguatamente utilizzata, se non adeguatamente moderata e percepita. Nel X libro della Repubblica, ad esempio, sembra seguire il destino della poesia, pericolosa in quanto assume un’apparenza di verità (543a e sgg, 605c e sgg). Pericolosa per chi? Naturalmente, pericolosa per l’anima.

 

7. Musikè dei filosofi relegata solo in una dimensione mentale?

Possiamo perciò notare che, in ogni modo, per Platone la musica è un’esperienza che sembra coinvolgere solo l’anima, non il corpo. Sembra insomma, come rileva Pelosi [4], che sia relegata in una dimensione mentale del soggetto (e nel Timeo riguarda solo l’anima razionale [5], poiché si parla di musica nella sua ideale manifestazione, come armonia dell’universo), senza quasi passare attraverso i sensi. Quasi per confermare quest’aspetto, nel libro VII della Repubblica Platone afferma:

Non posso pensare che vi sia altro sapere che indirizzi verso l’alto lo sguardo dell’anima, se non quello che verte su ciò che è e sull’invisibile. Ma se uno vuole studiare qualcuna delle cose sensibili, che la si osservi in alto a bocca spalancata, o in basso tenendola chiusa, io affermo che egli non ottiene nessuna conoscenza. [6]

Sembra insomma che per “indirizzare verso l’alto lo sguardo dell’anima” la musica debba costituire un sapere extra-sensibile, un sapere che “verte su ciò che è e sull’invisibile”. Per vertere sull’invisibile d’accordo, i suoni non si vedono e le armonie nemmeno. Ma come può prescindere dai sensi? Che genere di musica è questa? Si può ancora definire “musica”, o diventa mero silenzio, che forse è il silenzio della ragione? Sempre nel VII libro della Repubblica, Platone poi passa ad analizzare la teoria musicale, o armonica matematica, parlando a proposito dell’astronomia (naturalmente ha ben evidente la lezione pitagorica):

“[i nostri discepoli] commisurando l’un l’altro accordi e suoni percepibili dall’udito, compiono infatti, come gli astronomi, una fatica inane”. “Sì, per gli dèi, disse, e in modo ridicolo: si trovano nomi per non so quali intervalli minimi, e, tendendo l’orecchio come per ascoltare le voci dei vicini, alcuni sostengono di udire ancora una nota intermedia, e che questo va considerato l’intervallo minimo e dunque adottato come unità di misura, mentre altri ribattono che si tratta di un suono uguale ai precedenti: entrambi antepongono gli orecchi al pensiero”. “[…] si comportano nello stesso modo degli astronomi: cercano infatti i numeri che sono in quegli accordi percepiti dall’udito, ma non giungono a porsi il problema di scoprire quali numeri siano armonici, quali no, e nei due casi per quale ragione”. “Ma è opera straordinaria, disse, quella di cui parli”. “Utile piuttosto, dissi io, alla ricerca del bello e del buono, inutile invece se perseguiti per altri scopi”. [7]

Qual è il difetto di astronomi, musici, o armonici matematici? Tutti misurano gli accordi gli uni rispetto agli altri, ma non vanno al di là del percepibile, non vanno all’invisibile dei problemi alla base degli accordi. Il vero armonista – dice Ferruccio Franco Repellini nel suo saggio Astronomia e armonica [8] – non cerca più i numeri negli accordi che si sentono, ma indaga quali numeri sono in accordo e quali no: «la verità delle simmetrie dell’astronomia costituisce dunque la ragione delle sinfonie dei suoni» [9]. Insomma, come ben afferma Angelo Meriani nel suo saggio Teoria musicale e antiempirismo [10], «a differenza della musikē prevista nel curriculum dei guardiani, la disciplina riservata alla formazione intellettuale dei filosofi dialettici dovrà essere del tutto svincolata non soltanto dalla concreta pratica musicale e dai tecnicismi dell’approccio teorico dei Pitagorici, ma addirittura dagli stessi suoni come sono effettivamente percepiti» [11]. È la musica un dato da epurare dall’empirismo, da epurare dai sensi, almeno nella formazione dei filosofi di professione.

 

Note:

[1] Pelosi, op. cit., p. 6.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 7.

[4] Ivi, p. 8.

[5] Il corsivo è mio.

[6] Platone, La Repubblica, VII libro, 529b-c, traduzione e commento a cura di Vegetti M., Vol. V, Bibliopolis, Napoli 2003, p. 125.

[7] Platone, La Repubblica, VII libro, 530e-531c, ed. cit., pp. 128-129.

[8] Saggio contenuto in Platone, La Repubblica, VII libro, ed. cit., pp. 541-563.

[9] Repellini F.F., in Ivi, p. 553.

[10] Saggio contenuto in Platone, La Repubblica, VII libro, ed. cit., pp. 565-602.

[11] Meriani A., in Ivi, p. 567.

 

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