Plutarco, Sulla superstizione (9)
Plutarco, Sulla superstizione (9)
Set 09Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (8)
9. Tale è la superstizione negli eventi e nei momenti imprevisti, cosiddetti perniciosi; d’altra parte anche in quelli più soavi non è per nulla migliore dell’ateismo. Soavissimi, dunque, sono per gli uomini le feste, i banchetti presso i templi, i misteri, le iniziazioni, le preghiere agli dei e le adorazioni di essi. Ebbene, in queste circostanze guarda l’ateo ridere come un demente e sardonicamente di queste faccende e bisbigliare di nascosto ai suoi intimi che coloro che pretendono di propiziarsi gli dei con queste pratiche sono dissennati e folli; d’altronde non subisce alcun male. Il superstizioso, di contro, vuole ma non può partecipare alla gioia ed alla soavità.
La polis è piena di profumi d’incenso ed insieme di peana e lamenti [Sofocle, Edipo re, 4-5].
Così è la psiche del superstizioso: inghirlandato impallidisce, sacrifica e teme, prega con voce rotta ed offre incenso con mani tremanti, cosicché, in generale, indica la stoltezza della sentenza di Pitagora che dice che diveniamo eccellenti venendo presso gli dei, siccome proprio in quel dunque i superstiziosi si comportano più miseramente e più malamente, procedendo verso i santuari ed i templi degli dei come in pellegrinaggio verso covi di orsi, tane di draghi od antri di mostri marini.
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