Plutarco, Sulla superstizione (11)
Plutarco, Sulla superstizione (11)
Set 23
Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (10)
11. Ebbene, parlare male degli dei è irreligioso, mentre pensarne male non lo è? Ma non è il pensiero a rendere indegna la voce del blasfemo? Ecco che noi, infatti, rigettiamo la diffamazione giacché segno di mente malevola e consideriamo nemici quanti parlano male di noi giacché anche malpensanti. T’avvedi, ordunque, di quali rappresentazioni pensano i superstiziosi per quanto riguarda gli dei, supponendoli capricciosi, inaffidabili, mutevoli, vendicativi, crudeli, suscettibili; l’effetto necessario di esse è che il superstizioso odia e teme gli dei. Ecco, come potrebbe non farlo, se crede che i massimi tra i mali gli si siano generati e si genereranno ancora per loro disposizione? Odiando, dunque, e temendo gli dei, è loro nemico, ancorché li veneri, faccia sacrifici, sieda presso i templi; contuttociò non c’è da meravigliarsi, siccome anche i tiranni sono trattati con affetto e deferenza, erigono loro statue auree, ma li odiano silenziosamente
scuotendo la testa [Sofocle, Antigone, 291].
Ermolao adulava Alessandro, Pausania scortava Filippo e Cherea Gaio, ma ciascuno di costoro proferiva seguendoli:
Eh sì che mi vendicherei di te, se, ecco, mi si presentasse la possibilità [Iliade, 22, 20].
L’ateo non crede che vi siano dei, mentre il superstizioso non vuole, ma ha fede controvoglia, siccome gli fa paura non aver fede. Però, proprio come Tantalo desidererebbe sfuggire alla pietra sospesa su di lui, così anche costui desidererebbe sfuggire alla paura, che l’opprime non meno, e crederebbe beatifica giacché liberatrice la disposizione dell’ateo. Ordunque, l’ateo non è interessato da alcun elemento della superstizione, mentre il superstizioso, che è ateo per propensione, è troppo infermo per professare sugli dei la dottrina che vorrebbe.
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