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Plutarco, Sulla superstizione (10)

Plutarco, Sulla superstizione (10)

Set 16

Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (9)


10. Per questo, ecco, mi succede di meravigliarmi di coloro che professano che l’ateismo è empietà, ma non professano altrettanto sulla superstizione. Eppure, ecco, ad Anassagora occorse un processo per empietà quando disse che il sole è una pietra, mentre nessuno ha mai proclamato empi i Cimmeri giacché credono che il sole non ci sia in tutto e per tutto. Tu che dici? Colui che crede che non vi siano dei è irreligioso? Colui che invece crede siano tali e quali li immaginano i superstiziosi non aderisce a dottrine molto più irreligiose? Io, ecco, prediligerei il fatto che gli uomini dicessero di me: «Plutarco né è giammai nato né c’è» al fatto che dicessero questo: «Plutarco è un uomo instabile, mutevole, facile preda dell’ira, vendicativo in tutte le occasioni, permaloso: se chiami a pranzo altri preferendoli a lui, se non hai tempo per andare a fargli visita o non lo saluti, ti si avvinghia al corpo e lo sbrana o ti prende il figlio e lo bastona a morte o getta una sua fiera nei campi così da distruggerti il raccolto». Mentre Timoteo intonava ad Atene il suo canto ad Artemide e la definiva

invasata, posseduta, menade, furia,

tra gli spettatori astanti si alzò il compositore Cinesia e lo provocò così: «Tale divenga tua figlia». Eppure i superstiziosi suppongono cose simili a queste ed anche peggiori per quanto concerne Artemide: «O accorrendo da un capestro o avendo ucciso una partoriente o passando tra i cadaveri giungi contaminata, oppure uscendo dai trivi, allettata dai rifiuti dei sacrifici, abbracciata all’assassino». Ordunque, nessuno di costoro pensa più opportunamente di Apollo, di Era, di Afrodite, siccome tremano per e temono tutti questi. Contuttociò Niobe bestemmiò Latona con qualcosa di tale e quale a quanto la superstizione ha propinato sulla dea agli imbecilli, ossia che, offesa, fece uccidere con le frecce i figli della misera donna:

Sei figlie e sei figli nel fiore degli anni [Iliade, 24, 604];

era tanto ingorda di mali altrui ed implacabile? Ecco, se davvero la dea aveva rabbia ed era avversa ai malvagi e s’addolorava nell’ascoltare cattiverie e non rideva dell’umana incomprensione ed ignoranza ma ne soffriva, avrebbe dovuto scagliare frecce contro quanti le attribuivano falsamente questa crudeltà e questo astio, raccontando e scrivendo tali leggende. Ecco, rigettiamo, giacché barbaro e ferino, l’astio di Ecuba che dice:

Io gli strapperei il fegato a morsi per divorarlo [Iliade, 24, 212-213];

i superstiziosi, di contro, credono che la dea siriaca, se qualcuno mangia sardine ed acciughe, gli divori gli stinchi, gli infiammi con ulcere il corpo, gli spappoli il fegato.

Brano seguente: Plutarco, Sulla superstizione (11)


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