Platone, Parmenide (1)
Platone, Parmenide (1)
Apr 17[126a] Appena fummo giunti ad Atene da casa nostra, Clazomene, in piazza incontrammo Adimanto e Glaucone. E, prendendomi la mano, Glaucone disse: «Salve Cefalo! Ehi, se hai bisogno di qualche cosa qua di quelle in nostro potere, parla».
«Ma sì», dissi io, «mi presento proprio per questo, perché ho bisogno di voi».
«Allora parla», disse, «di questo bisogno».
[126b] Ed io dissi: «Qual era il nome del vostro fratello, quello materno? Ecco, non rimembro. Era ancora un bambino quando per la prima volta soggiornai qui, via da Clazomene; dunque è ormai passato molto tempo da quella volta. Ecco, il nome del padre, mi sembra, era Pirilampe».
«Sì, assolutamente».
«Sì, e quello di lui, dunque?»
«Antifonte. Ma perché t’interessa molto?»
«Costoro», dissi io, «sono miei concittadini, proprio dei filosofi, e han udito che questo Antifonte ha avuto molti incontri con Pitodoro, compare di Zenone, [126c] e sa a memoria, avendoli spesso uditi da Pitodoro, i colloqui che una volta Socrate, Zenone e Parmenide svolsero».
«Dici il vero», confermò.
«Orbene», disse, «abbiam bisogno di ascoltarli».
«Ma non è difficile», disse. «Infatti, quand’era adolescente, li disaminò molto bene, mentre adesso, ecco, come il nonno, suo omonimo, scialacqua il grosso delle ore nell’equitazione. Ma, se si deve, andiamo da lui: testé, ecco, se n’è partito verso casa, abita però vicino, in Melite».
[127a] Detto questo, c’incamminammo, e c’imbattemmo in Antifonte a casa che dava ad un fabbro una briglia da riparare; appena, dunque, si congedò da lui, i fratelli gli dissero per quali fini ci presentavamo, e lui mi riconobbe dal mio precedente soggiorno e mi salutò, e quando noi gli chiedemmo di narrarci i colloqui, dapprima esitò – ecco, disse che era un gran lavoro – poi comunque narrò. Disse dunque Antifonte che Pitodoro raccontava che erano giunti una volta alle Grandi Panatenee [127b] Zenone e Parmenide, indi che Parmenide era di già molto vecchio, assai incanutito, ma bello e nobile d’aspetto, e aveva all’incirca sessantacinque anni; Zenone invece era allora vicino ai quaranta, alto e gradevole a vedersi, e si diceva che fosse stato il ragazzo di Parmenide. Disse dunque che alloggiavano da Pitodoro, [127c] fuori le mura, nel Ceramico; dunque vi giunse Socrate e con lui molti altri, desiderosi di udire lo scritto di Zenone: allora, infatti, per la prima volta esso fu recato qui da loro. Raccontava che Socrate, dunque, era allora assai giovane. Indi Zenone stesso lo lesse loro, mentre Parmenide per caso era all’esterno; e la lassa degli argomenti ancora da leggere era breve allorché [127d] Pitodoro disse di esser entrato egli stesso dall’esterno e Parmenide con lui ed Aristotele, quello che divenne uno dei Trenta, ed ascoltarono ancora poco dello scritto, ma così non fu per lui, che anche precedentemente aveva udito Zenone.
Quindi Socrate, dopo aver udito, consigliò di rileggere la prima ipotesi del primo argomento e, riletta che fu, [127e] disse: «Come argomenti questo, Zenone? Se gli essenti sono molti, allora essi devono essere simili ed anche dissimili; questo, però, è impossibile: infatti non è possibile né che i dissimili siano simili né che i simili siano dissimili. Non argomenti così?»
«Così», confermò Zenone.
«Quindi, se è impossibile che i dissimili siano simili ed i simili dissimili, è impossibile dunque anche che gli essenti siano molti, no? Se, infatti, fossero molti, patirebbero queste conseguenze impossibili. Allora questo è ciò che vogliono i tuoi argomenti, nient’altro che oppugnare a tutte le dicerie che i molti non sono? E proprio di questo credi che ciascuno dei tuoi argomenti sia prova, sicché ritieni anche che tante siano le prove che hai fornito che i molti non sono quanti sono gli argomenti che hai scritto? [128a] Così argomenti o io non comprendo rettamente?»
«No, anzi», dichiarò Zenone, «hai splendidamente condensato ciò che in generale lo scritto vuole fare».
«Ho in mente», disse Socrate, «Parmenide, che Zenone qui voglia starsene vicino non solo all’amicizia con te, ma anche, d’altronde, allo scritto. Infatti ha scritto, in qualche modo, lo stesso che hai scritto tu, ma, cambiandolo, fa l’esperimento d’ingannarci come argomentasse qualcosa d’alternativo. Tu, infatti, nel tuo poema, asserisci che il tutto è uno, [128b] e di questo procuri prove splendide e buone; egli invece asserisce che i molti non sono, ed anche lui procura moltissime e grandissime prove. Quindi che il primo asserisca l’unità ed il secondo la non-molteplicità, e che così ciascuno argomenti in modo che sembri che non diciate per niente le stesse cose pur argomentando pressoché le stesse, questo fa parere che voi enunciate questi enunciati al disopra di noialtri».
«Sì», disse Zenone, «Socrate. Tu però non hai avuto del tutto sentore della verità latente dello scritto. Eppure, [128c] ecco, come le cagne della Laconia bravamente rincorri e rintracci le argomentazioni; ma in primis ti sbagli su questo, giacché lo scritto assolutamente non è così solenne da essere scritto con gli intenti che tu dici, occultato agli uomini come un qualche gran capolavoro, ma tu menzioni qualcosa di accidentale, mentre ecco la verità: esso è un soccorso all’argomento di Parmenide contro coloro che tentano di burlarsene siccome, se si argomenta che l’uno è, all’argomento conviene patire molte conseguenze anche ridicole e contrarie ad esso. Questo scritto, dunque, controargomenta dinnanzi a coloro che argomentano la molteplicità e ridà lo stesso e di più, volendo chiarire questo, che, se i molti sono, allora questa loro ipotesi ne patirebbe di ancora più ridicole di quelle che patisce quella che l’uno è, se se ne ottenesse una configurazione esaustiva. Dunque per tale amor di vittoria fu scritto da me quand’ero giovane e, scrittolo, qualcuno lo rubò, sicché in effetti non ci fu neanche la decisione se fosse il caso che esso uscisse [128e] alla luce oppure no. In questo quindi ti sbagli, Socrate, giacché credi che esso sia stato scritto non dall’amor di vittoria d’un giovane ma dall’amor dell’altrui stima d’uno più vecchio; dopodiché, come già dissi, non l’hai approcciato male».
Brano seguente: Platone, Parmenide (2)
È destino allora, questo passo l’ho letto ieri sera mentre ero nel letto..