Platone, Lettera VII 340b-341a
Platone, Lettera VII 340b-341a
Mag 21
Brano precedente: Platone, Lettera VII 334e-335c
[340b] Dunque, dopo che arrivai, * credei in primis di dover raccogliere [labein] una prova [elenkhon] di questo: se realmente Dionisio fosse acceso dalla filosofia come da un fuoco o se questo gran [polus] parlare [logos] fosse giunto ad Atene a vanvera.
C’è dunque un modo di raccogliere perizie su tali cose non ignobile ma realmente appropriato ai tiranni, per altro anche a quelli rigurgitanti di malintesi [parakousmatōn mestois], della qual cosa anche io, appena giunto, percepii [ē(i)sthomēn] che era affetto [peponthota], e molto, Dionisio. Si deve dunque indicare a tali persone che cos’è questa pratica nella sua totalità e di che qualità è [hoti esti pan to pragma hoion te] [340c] e di quante cose è fatta [di’hosōn pragmatōn] e quanta fatica contiene [hoson ponon ekhei].
Ecco, l’ascoltatore, se è veramente vicino alla filosofia [philosophos oikeios] e degno [axios] di questa pratica, essendo divino, ritiene d’aver udito [akēkoenai] una via [hodon] stupenda [thaumastēn], che sia quella da tenere subito e che non si possa vivere facendo altrimenti [biōton allōs poiounti]; dopo questo, dunque, intensificando egli stesso col suo tendere quello di colui che lo guida nella via, non getta la spugna prima di aver attinto questo fine in tutto e per tutto [telos epithē(i) pasin] o d’aver assunto capacità [labē(i) dunamin] sì da esser egli stesso capace [dunatos] di condursi a prescindere da colui che gliel’ha indicata. [340d] Riflettendo [dianoētheis] in questa maniera ed in conformità a questi pensieri [kata tauta] vive [zē(i)] l’uomo di tal fatta, agendo comunque nelle sue faccende, quali che siano, [prattōn men en haistisin an ē(i) praxesin] ma in tutto [para panta] sempre attenendosi [ekhomenos] alla filosofia ed a quel regime di vita [trophēs] che giorno per giorno lo renda [apergazētai] al meglio disposto all’apprendimento [eumathē] e lucido di memoria [mnēmona] e capace di ragionare sobrio in sé [logizesthai dunaton en hautō(i) nēphonta]; finisce invece per odiare quello contrario [enantian] a questo.
Quelli, invece, che non son realmente filosofi bensì riverniciati [epikekhrōsmenoi] d’opinioni [doxais], come quelli coi corpi abbronzati dal sole, vedendo [idontes] quanti insegnamenti sono da mandare a mente [hosa mathēmata estin] e [340e] che gran pena è [ponos hēlikos] e come è ordinata [kosmia] la dieta [diaita] giorno per giorno appropriata [prepousa] a questa pratica [tō(i) pragmati], ritenendo sia difficile ed impossibile [adunaton] per loro, or dunque neppure [341a] divengono capaci di occuparsene [epitēdeuein dunatoi gignontai], alcuni di loro invece si persuadono [peithousin hautous] di aver udito tutto sommato a sufficienza [hikanōs akēkootes eisin to holon] e di non aver più bisogno di alcun’altra pratica [ouden eti deontai tinōn pragmatōn].
Or dunque, questa viene ad essere [gignetai] la perizia [peira] chiara ed assolutamente infallibile [asphalestatē] sui rammolliti [pros tous truphōntas] ed incapaci di penare [diaponein], sicché non devono mai citare in giudizio colui che dà loro indicazioni [balein en aitia(i) ton deiknunta] ma loro stessi, non essendo capaci di occuparsi di tutto quel che afferisce [panta ta prosphora] a questa pratica [tō(i) pragmati].
Nota
* Sperando vanamente di realizzare in extremis il suo progetto di comunità politica retta filosoficamente (esposto nel dialogo Repubblica), Platone si recò nel 361 a.C. a Siracusa per la terza volta, su pressione dell’amico Dione e su invito del tiranno Dionisio II, il quale millantava di praticare la filosofia, come vedremo leggendo.
Brano seguente: Platone, Lettera VII 341a-342a