Platone, Lettera VII 334e-335c
Platone, Lettera VII 334e-335c
Mag 14
[334e] Ecco, se ci si getta sulle cose più belle per sé e per la città il patire tutto ciò che si può patire è retto e bello. Ecco, nessuno di noi è nato [pephuken] immortale, e neppure se a qualcuno avvenisse diverrebbe felice [eudaimōn], come sembra [dokei] ai più: ecco, nessun male e bene degno di nota [logou] c’è [335a] per coloro che non han anima [apsukhois], ma questo avverrà a ciascuna anima che sia o con un corpo [meta sōmatos] o separata [kekhōrismenē(i)]. Dunque bisogna sempre realmente [ontōs] fidarsi degli antichi e sacri insegnamenti [hierois logois], che appunto ci annunziano che l’anima è immortale e subisce giudizi e sconta le punizioni più grandi ogniqualvolta abbandona il corpo; perciò bisogna anche ritenere che patire grandi torti [hamartēmata] ed ingiustizie [adikēmata] sia male più piccolo che farli [drasai], la qual cosa [335b] l’uomo amante delle ricchezze [philokhrēmatōn] e povero [penēs] quanto all’anima neanche l’ascolta, e se l’ascolta, ridendone, come crede, dappertutto spudoratamente arraffa [anaidōs harpazei] tutto ciò che casomai creda che, come una bestia, lo porti ad inghiottire o bere o riempirsi di quel piacere servile e sgradevole detto non correttamente “di Afrodite”, essendo cieco e non guardando quali di queste rapacità [harpagmatōn] segua l’empietà [anosiourgia], quale male sia sempre compagno di ciascun’ingiustizia, quale [335c] apporto dappertutto del tutto disprezzato ed infelice è necessario trascinare nel proprio solco per l’ingiusto peregrinando sulla terra ed anche sotto terra.
Brano seguente: Platone, Lettera VII 340b-341a