Platone, Fedone (5)
Platone, Fedone (5)
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[66b] «Dunque è necessario», disse, «che per tutto ciò sussista presso i genuini filosofi una dottrina cotale, sicché si dicano l’un l’altro tali cose, cioè: “Toh, c’è questo rischio: che per qualche via inferiamo, nell’esame razionale, che, sinché abbiamo il corpo e la nostra anima è infervorata da tale male, non acquisiremo mai durevolmente ciò cui aspiriamo, e cioè, diciamo, il vero. Miriadi di disagi, infatti, ci fa avere il corpo per il necessario nutrimento; [66c] e poi, se delle malattie si abbattono su di noi, c’impediscono la caccia all’ente. Poi ci riempie di amori e desideri e paure e immaginazioni d’ogni risma e di molta fola, cosicché, secondo il detto, per davvero in chi tra noi è sottoposto ad esso non si genera giammai neanche il pensiero di alcunché. E infatti null’altro ci fa avere guerre e rivolte e battaglie se non il corpo e i suoi desideri. Per l’acquisizione di ricchezze, infatti, si generano tutte le guerre, ma le ricchezze [66d] siam necessitati ad acquisirle per il corpo, asserviti alla cura di esso; e da esso siamo indotti a non aver agio per filosofare, a causa di tutto questo. Ma la cosa peggiore di tutte è che, anche nell’evenienza che abbiamo un qualche agio lasciatoci da esso e ci mettiamo a esaminare qualcosa, pure in mezzo alle ricerche ci procura ovunque tumulto impetuoso e turbamento e ci piaga, cosicché non si può, per colpa sua, guardare al vero. Ma è così per indicarci che, se intendiamo avere puramente idea di qualcosa, allora [66e] dobbiamo alienarci da esso e contemplare con l’anima in sé le cose in sé; e si vede che allora per noi esisterà ciò cui aspiriamo e di cui diciamo di essere amanti, la saggezza, ma dopo che saremo trapassati, come ci significa questo discorso, non da vivi. Se, ecco, non si è capaci, assieme al corpo, di conoscere puramente niente, o l’una o l’altra delle due: o non è affatto possibile conoscere le idee o lo è per i trapassati: allora, [67a] infatti, in sé e per sé l’anima sarà lungi dal corpo, ma prima no. E, nel caso vivessimo, come pare, tanto più saremo vicini a conoscere le idee, quanto più non ci assembliamo per niente né ci accomuniamo col corpo, se non per il totalmente necessario, né ci riempiamo della natura di esso, ma ci depuriamo da esso, sinché Dio non ci scioglierà da esso; e così puri, alienatici dalla dissennatezza del corpo, com’è verosimile, saremo in compagnia di entità tali e quali a noi e conosceremo da noi [67b] stessi tutto ciò che è avvolto da certezza, che poi è equivalente al vero: ecco, non sarebbe lecito l’adattamento del puro all’impuro”. Tali cose credo, Simmia, sia necessario si dicano l’un l’altro e adottino come dottrina tutti quelli che amano rettamente l’attività mentale. O a te non sembra che sia così?»
«Sì, più di ogni cosa, Socrate».
«Quindi», disse Socrate, «se questo è vero, amico mio, c’è molta speranza, per chi arriva ove io mi porto, di acquistare a sufficienza colà, come in nessun altro luogo, ciò in vista di cui ci fu grande attività da parte nostra nella vita trascorsa, sicché, ecco, [67c] l’emigrazione che ora mi è imposta avviene con buona speranza anche per un’altra persona che reputi di aver preparato il pensiero, avendolo come purificato».
«Assolutamente», disse Simmia.
«Ma la purificazione, se c’è, non comporta forse quello che è detto nel discorso antico: il separare il più possibile dal corpo l’anima e assuefarla a riaggregarsi e raccogliersi in sé e per sé totalmente al di fuori del corpo e a dimorare, per quel che è possibile, nel presente e nel [66d] passato, rimanendo sola per sé, sciolta dal corpo come da catene?»
«Assolutamente», disse.
«Quindi, non si denomina ‘morte’ questo, ecco: scioglimento e separazione dell’anima dal corpo?»
«Assolutamente sì», disse poi lui.
«Ordunque, a scioglierla, come diciamo, aspirano sempre il più possibile e solo coloro che filosofano rettamente, e proprio questo è ciò su cui meditano i filosofi: scioglimento e separazione dell’anima dal corpo; o no?»
«Pare».
«Quindi, come dicevo all’inizio, non sarebbe ridicolo un uomo [67e] che si è preparato nell’intera vita a vivere in modo da essere il più vicino possibile all’esser morto e poi, giuntogli, ne soffre?»
«Ridicolo, come no?»
«Per essenza allora», disse, «Simmia, coloro che rettamente filosofano meditano sul morire e l’esser morti per loro è molto meno pauroso che per gli altri uomini. Esaminalo dunque a partire da ciò: se, ecco, sono stati avversi in tutto al corpo, aspirano ad avere l’anima in sé e per sé e, quando questo accade, si spaventassero e soffrissero, non sarebbe irrazionale se non [68a] andassero allegri laddove, arrivando, c’è per loro speranza d’incontrare ciò che amarono durante la vita ‒ ché amarono la saggezza ‒ e di essere alienati da ciò che era con loro, al quale furono avversi? O, mentre molti dei morti che hanno abbandonato gli affetti umani di ragazzi, mogli e figli vorrebbero di buon grado transitare verso l’Averno condotti da questa speranza, di vedere colà quelli che ebbero a cuore e stare con loro, invece uno che con tutto l’essere ama la saggezza e accoglie fermamente questa stessa speranza, di non poter in nessun’altro luogo incontrarla [68b] con fondate ragioni se non nell’Averno, soffrirà forse di dover morire o non andrà allegro proprio là? Bisogna ben crederlo, se, beninteso, egli con tutto l’essere è, amico mio, filosofo: infatti avrà fermamente quest’opinione: di non poter in nessun’altro luogo incontrare in purezza la saggezza se non colà. Se dunque la cosa sta così, come appunto dicevo, non sarebbe molto irrazionale se costui paventasse la morte?»
«Proprio molto, per Giove!», disse poi lui.
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