Temi e protagonisti della filosofia

Platone, Fedone (21)

Platone, Fedone (21)

Nov 14

Brano precedente: Platone, Fedone (20)

 

«Ascolta allora che cosa ti dirò. Ecco: io», disse, «Cebete, quand’ero giovane, avevo un afflato portentoso per quella sapienza che chiamano indagine sulla natura: mi sembrava infatti che avere idea delle cause di ciascun ente ‒ perché ciascuno si genera, perché si distrugge e perché è ‒ fosse supersplendido. E spesso [96b] rimuginavo su e giù tra me e me esaminando in primis tali problemi: è forse allorquando il caldo e il freddo assumono un che di marcio che, come alcuni dicono, i viventi si accrescono? e ciò con cui pensiamo è il sangue, l’aria o il fuoco? o non è nessuno di loro, ma è il cervello che ci procura le percezioni dell’udire, del vedere e dell’odorare, da esse si generano poi memoria e opinione e poi da memoria e opinione, una volta che abbian assunto lo stato di quiete, si genera così conoscenza stabile? Eppure, esaminando le distruzioni di questi enti e le affezioni patite dal cielo e dalla terra [96c], al termine mi sembrò che questo affare per me fosse innaturale come nessun’altro. Ti dirò dunque una prova sufficiente di ciò, ecco: io allora da questo esame fui così fortemente accecato verso ciò di cui già prima avevo chiaramente scienza stabile ‒ così sembrava a me e agli altri ‒ che mi uscì di mente anche ciò di cui prima credevo di avere idea, sia riguardo a molto altro sia riguardo al perché l’uomo aumenta di dimensioni. Ecco, prima d’allora pensavo che a ognuno fosse manifesto questo: che aumenta per il mangiare e il bere: [96d] siccome, infatti, a partire dai cibi si aggiungono carni alle carni e ossa alle ossa, e così, secondo lo stesso argomento, anche a ciascuna delle altre parti si aggiungono i cibi vicini a loro, allora dunque credevo che il volume, da poco che era, fosse poi divenuto molto e che così l’uomo piccolo divenisse grande. Così allora credevo; non ti sembra credessi in giusto modo?»

«A me sì», disse Cebete.

«Esamina dunque anche questo. Credevo, ecco, che questa dottrina fosse sufficiente: quando un qualche uomo grande stava presso uno piccolo, mi sembrava [96e] fosse maggiore proprio per la testa, e così tra cavallo e cavallo, e, ancor più lampante di questo, mi sembrava che dieci fosse più di otto per il due che gli è aggiunto e che il bicùbito fosse maggiore del cubito perché lo supera della metà».

«Ma ora», disse Cebete, «che te ne pare dunque?»

«Sono affatto lungi», disse, «per Giove, dal credere che abbia idea della causa di queste cose proprio io che non ammetto tra me e me neppure che, qualora si aggiunga uno ad uno, diventi due o l’uno cui è stato aggiunto o quello che è stato aggiunto o che l’aggiunto e quello cui è stato aggiunto [97a] per l’aggiunta dell’uno all’altro diventino due: mi stupisco, ecco, che di fatto sia possibile che, allorquando ciascuno di essi era separato dall’altro, ciascuno fosse uno e allora non fossero due, ma dopo, accostati l’uno all’altro, allora causa del loro diventare due sia proprio la concomitanza dell’esser l’uno giustapposto all’altro. Inoltre non posso proprio persuadermi neanche del fatto che, qualora si scinda un’unità in due, la causa generante del due sia proprio la scissione: infatti [97b] questa volta la causa del generarsi del due è opposta a quella dell’altra volta. L’altra volta infatti era che si condussero l’uno accanto all’altro e l’uno fu aggiunto all’altro, ora invece è che l’uno è astratto ed è separato dall’altro. E neppure ho conoscenza stabile di come e perché l’uno si generi, e neanche, in una parola, confido di trovare persuasivo alcun perché del generarsi o del distruggersi o dell’essere di alcun ente secondo questo modo di procedere, ma io mi arrabatto a vista in qualsiasi altra maniera tranne che in questa, cui non mi adatto in nessun modo».

 

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