Platone, Fedone (12)
Platone, Fedone (12)
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«Che dire quindi? Se si ha questo, allora non s’addice forse al corpo dissolversi presto, all’anima invece l’essere al tutto indissolubile o pressoché al tutto?»
[80c] «Ecco sì, come no?»
«Però hai anche in mente», disse, «che allorquando l’uomo muore il visibile in lui, il corpo, che pur giace in luogo visibile e che chiamiamo ‘cadavere’, cui s’addice dissolversi e decadere e sfumare, non patisce subito alcuna di queste cose, ma permane per un tempo abbastanza lungo, mentre qualora qualcuno termini la vita avendo il corpo in forma florida e in un momento di grazia, permane anche meglio, assolutamente: infatti il corpo assottigliato e trattato, come le mummie in Egitto, rimane pressappoco integro per una quantità incalcolabile di tempo, [80d] e poi alcune parti del corpo (ossa, nervi e tutte le cotali), anche se esso imputridisce, sono, per dirlo in una parola, immortali lo stesso. O no?»
«Sì».
«Ma allora l’anima, l’invisibile che va in un altro luogo tale e quale a lei, nobile e puro e invisibile, Averno per davvero, presso il dio buono e saggio, ove, se Dio voglia, adesso anche la mia anima sta andando, questa nostra anima dunque, che è tale e siffatta, alienandosi dal corpo subito si disferà del futuro e si distruggerà, come dicono i più tra gli uomini? [80e] Eh, ci corre molto, caro Cebete e caro Simmia, ma si ha piuttosto questo: qualora si alieni pura, niente del corpo traendo seco, siccome deliberatamente non ha avuto nulla in comune con lui nella vita, ma lo ha fuggito e s’è raccolta in sé stessa, siccome ha meditato sempre su questo ‒ [81a] che poi null’altro dunque è che filosofare rettamente e meditare con tutto il proprio essere di morire quietamente; o non è forse questa la meditazione sulla morte?»
«Sì, in tutto e per tutto».
«Quindi, essendo questo il suo stato, non se ne va forse verso l’a lei simile, l’invisibile, il divino immortale e saggio, raggiunto il quale le succede di essere felice, alienata da vagamento, da insipienza, da paure, da amori selvaggi e dagli altri umani mali e, come si dice degli iniziati, trascorrendo il restante tempo in compagnia degli dei? Possiamo parlare così, Cebete, o dobbiamo parlare altrimenti?»
«Così, per Giove!», disse Cebete.
[81b] «Credo che qualora invece s’alieni dal corpo lordata e impura siccome se n’è sempre stata con il corpo e l’ha accudito e amato ed è stata ammaliata da lui e dai suoi desideri e piaceri di modo che nient’altro le sembrava essere vero se non ciò che ha aspetto corporeo, ciò che uno può toccare e vedere e bere e magiare e usare per il sesso, mentre ciò che è oscuro a vedersi con gl’occhi e invisibile ma intelligibile e apprendibile in filosofia, questo s’è assuefatta a odiare, a temere e fuggire, [81c] credi dunque che un’anima in uno stato così s’alienerà dal corpo volta in sé e per sé a purezza certa?»
«In nessun modo», disse.
«Ma anzi credo che se ne andrà ravvolta dall’aspetto corporeo, che la frequentazione e la compresenza del corpo, a causa dell’esser sempre stata con lui e a causa della molta cura, hanno reso a lei confacente».
«Assolutamente sì».
«Ecco dunque, amico, bisogna credere che esso sia impacciante e greve e terreno e visibile; e dunque [81d] l’anima tale da averlo in sé è gravata ed è tratta daccapo verso il luogo visibile per paura dell’invisibile e dell’Averno (com’è detto), col che s’aggira intorno ai monumenti e alle tombe, intorno ai quali dunque si adocchiano fantasmi e ombre d’anime, nel qual aspetto si presentano tali anime che non si sono sciolte puramente ma trattengono con sé il visibile e perciò si vedono». .
«Già, si vede di sì, Socrate».
«Si vede proprio di sì, Cebete; beh, e che non si creda che esse siano quelle dei buoni, tutt’altro: sono quelle dei pravi, le quali son necessitate a vagare per tali luoghi scontando la pena del loro precedente regime di vita, che fu malvagio, e vagano, ecco, fintantoché, per il [81e] desiderio di quell’aspetto corporeo, con cui si sono accompagnate, sono incatenate daccapo al corpo; ma sono incatenate, come si vede, a consuetudini tali e quali a quelle su cui è loro accaduto di concentrarsi anche nella vita precedente».
«Quali sono dunque queste consuetudini di cui parli, Socrate?»
«Ad esempio quelli che si son concentrati sulla ghiottoneria, sulle sfrenatezze e sull’ubriachezza e non se ne guardarono [82a] è verosimile che s’immettano nel genere degli asini e delle bestie di tal fatta, o credi di no?»
«Parli con totale verosimiglianza».
«Nei generi dei lupi, degli sparvieri e dei nibbi invece quelli che hanno prediletto ingiustizie, tirannidi e rapine; o dove altro diremmo che tali anime vadano?»
«Sicuramente», disse Cebete, «in tali generi».
«Or dunque», disse poi lui, «non è forse chiaro che anche ciascuno degli altri va in una certa compagine corporea a seconda delle somiglianze con ciò su cui s’è concentrato?»
«Ma chiaro», disse; «come no?»
«Quindi», disse, «tra loro quelli che sono felicissimi e vanno a un bellissimo luogo non sono forse quelli [82b] che si sono occupati della virtù civile e politica, che poi chiamano ‘saggezza’ e ‘giustizia’, generata da assiduità e concentrazione senza filosofia e intelletto?»
«Com’è dunque che costoro sarebbero felicissimi?»
«Perché è verosimile che costoro vadano daccapo in un genere tale da essere politico e mite, o delle api o delle vespe o delle formiche, e daccapo al genere umano stesso, e che da loro si generino uomini misurati».
«Verosimile».
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