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Platone, Apologia di Socrate (13)

Platone, Apologia di Socrate (13)

Nov 05

 

 

Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (12)

 

Ebbene, forse vi sembra che anche parlando in questo modo qui parli pressappoco come riguardo al gemito ed allla supplica, con arroganza; così invece non è, o uomini d’Atene, ma piuttosto in quest’altro modo. Io son persuaso di non essere ingiusto volontariamente contro nessuno degli uomini, ma non vi persuado di questo: infatti abbiamo dialogato tra noi poco tempo. Poiché, come io penso, se anche per voi fosse legge, come per altri uomini, decretare sulla morte non in un giorno soltanto ma in molti, [37b] allora vi sareste persuasi; adesso invece non è facile in poco tempo dissolvere grandi calunnie. Essendo dunque io persuaso di non esser ingiusto verso alcuno, mi manca molto per esser ingiusto, ecco, verso me stesso e dire io stesso contro me stesso che sono meritevole della pena e domandarne per me stesso una di qualche sorta. Temendo che? Forse per non patire quel che Meleto domanda come condanna per me, che affermo di non sapere se è un bene od un male? Anziché questo, dunque, sceglierò qualcuna di quelle pene che so bene che sono mali, domandandola? Forse la prigione? E perché io devo [37c] vivere in prigione, asservito alla magistratura sempre costituita, agli Undici (1)? Oppure una multa ed esser incarcerato sinché non l’avrò pagata? Ma lo stesso per me è come or ora dicevo: io non ho soldi attraverso cui pagarla. E dunque domanderò come condanna l’esilio? Forse, ecco, potreste condannarmi a questo. Tuttavia dovrebbe prendermi un grande amore per la vita, o uomini d’Atene, se fossi così illogico da non poter calcolare che voi, pur essendo miei concittadini, non siete stati capaci di soffrire le mie conversazioni e [37d] le mie discussioni, anzi vi son divenute tanto gravose e tanto odiose che mo cercate di affrancarvi da esse; altri, or dunque, le soffriranno facilmente? Ci manca molto, o uomini d’Atene. Quindi la vita sarebbe bella per me se, esiliato da uomo della mia età, vivessi scacciato e migrando da una città all’altra! So bene, ecco, che, ovunque vada, i giovani m’ascolteranno discutere, come qua; e, anche se li scaccio, loro stessi mi faranno scacciare persuadendo i [37e] più anziani; se però non li scaccio, lo faranno i loro padri e familiari a causa loro.

Forse quindi qualcuno potrebbe dire: «Dunque, o Socrate, non sarai capace, allontanatoti da noi, di vivere silente e standotene in quiete?». Questa cosa qui, dunque, è, tra tutte, quella di cui è più difficile persuadere alcuni di voi. Se infatti argomento che questo è disobbedire al dio e che per questo è impossibile [30a] restarsene in quiete, non mi crederete, come se fossi ironico; se invece argomento che si dà il caso che il bene massimo per l’uomo sia questo, fare ogni giorno discorsi sulla virtù e sulle altre cose sulle quali voi mi sentite dialogare ed esaminare me stesso e gli altri, mentre la vita senza esame non è da vivere per un uomo, mi crederete ancora meno se argomento queste cose. Le cose invece stanno appunto così, come io professo, o uomini, persuaderne però non è facile. Eppure io simultaneamente non soglio [38b] ritenermi degno di alcun male. Se, infatti, avessi soldi, allora avrei domandato come condanna una somma che sarei stato in grado di pagare: non mi avrebbe infatti danneggiato per nulla; ora però, ecco, non ne ho, a meno che non vogliate domandarmi tanto quanto io possa pagare. Forse dunque potrei pagarvi una mina d’argento: domando quindi d’esser multato di tanto.

Platone però, costui, o uomini d’Atene, e Critone e Critobulo ed Apollodoro mi esortano a domandare come condanna trenta mine, ed essi stessi ne danno garanzia: domando quindi come condanna questa somma, e per voi loro saranno affidabili garanti del denaro.

 

Nota

(1) Magistrati sorteggiati incaricati della gestione delle forze dell’ordine, del sistema carcerario e delle esecuzioni.

 

 


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