Platone, Apologia di Socrate (1)
Platone, Apologia di Socrate (1)
Ago 13
[17a] Ciò che voi, o cittadini Ateniesi, avete provato ad opera dei miei accusatori, (1) non so; comunque anch’io per poco non mi son dimenticato di me stesso: argomentavano così persuasivamente… Eppure, quanto al vero, per così dire, non han detto nulla. Dunque, mi son stupito soprattutto di una delle molte falsità con cui vi han mentito, quella nella quale dicevano che bisogna che voi vi cauteliate per non esser ingannati da me, siccome sono bravo a parlare. [17b] Ecco, che non si sian vergognati perché subito sarebbero stati da me confutati concretamente, poiché in alcun modo parrò bravo a parlare, questo mi sembrò fosse il massimo dell’impudenza loro, sempreché costoro non chiamino “bravo nel parlare” colui che dice il vero: se, ecco, argomentano questo, allora io concorderei ‒ non secondo il loro argomento ‒ di essere un oratore. Costoro quindi, come io argomento, non han detto alcunché di vero, invece da me voi ascolterete tutta la verità, non già, per Giove, o cittadini Ateniesi, discorsi, ecco, abbelliti, come quelli di costoro, [17c] con fraseggi e paroloni, né adorni, ma ascolterete argomenti improvvisati con le parole che capitano ‒ confido, ecco, che siano giuste le cose che dico ‒ e nessuno di voi s’aspetti altrimenti: non sarebbe infatti neppure conveniente, o cittadini, che a quest’età mi presentassi a voi forgiando discorsi come un ragazzo. E comunque soprattutto, o cittadini Ateniesi, di questo vi prego e scongiuro: se mi ascolterete difendermi con quei discorsi coi quali sono solito discutere anche in piazza davanti alle bancarelle, dove molti di voi m’hanno ascoltato, ed altrove, non [17d] stupitevi e non rumoreggiate per questo. Ecco, è proprio così. Adesso io salgo in tribunale per la prima volta, da settantenne: ho quindi inesperienza ed estraneità al linguaggio di qua. Come, quindi, se si desse il caso che fossi realmente straniero sareste comprensivi con me se [18a] parlassi in quella lingua ed in quel modo nei quali fossi cresciuto, anche adesso, dunque, vi domando questa giustizia, come, ecco, a me sembra: di lasciar perdere il modo dell’esposizione (forse, ecco, peggiore, forse invece migliore, sia come sia), e d’ispezionare invece solo questo e a questo volgere la mente: se dico cose giuste o no: ecco la virtù del giudice, quella dell’oratore, invece, è dire la verità.
Per prima cosa, quindi, è giusto mi difenda, o cittadini Ateniesi, contro le prime accuse false e i primi accusatori e dopo contro le ultime e [18b] gli ultimi. Molti miei accusatori, infatti, ci sono stati davanti a voi e da tempo, ormai da molti anni ‒ senza che dicessero nulla di vero ‒, che io temo più di quelli dell’ambiente di Anito, anche se anche questi sono temibili; ma son più temibili quelli, o cittadini, che, prendendo presso di sé molti di voi sin da fanciulli, persuadevano e ancor più mi accusavano ‒ nulla di vero ‒: c’è un certo Socrate, uomo sapiente, che rimugina sulle cose celesti e fa ricerca su tutte quelle sottoterra e [18c] rende migliore l’argomento peggiore. (2) Costoro, o cittadini Ateniesi, che han diffuso questa fama, sono i miei accusatori temibili: coloro, ecco, che li ascoltano ritengono che coloro che fan queste ricerche non credano neppure negli dèi. Inoltre questi accusatori sono molti ed è già da molto tempo che m’accusano, e parlavano a voi in quell’età in cui eravate creduli al massimo, essendo alcuni di voi fanciulli ed altri ragazzi, accusandomi scorrettamente in contumacia, senza che qualcuno mi difendesse. Tuttavia la cosa più illogica di tutte è che neppure [18d] è possibile sapere e pronunciare i loro nomi, ad eccezione di qualcuno che si dà il caso sia commediografo (3). Quanti dunque, usi ad invidia e menzogna, vi persuadevano, ed anche quelli che, persuasi, persuadevano altri, tutti costoro sono quelli meno alla portata: ecco, non è possibile né far venire qui né confutare alcuno di essi, ma è necessario purtroppo che mi difenda come combattendo ombre e confuti senza che alcuno risponda. Considerate quindi anche voi, come io argomento, che ci son due categorie di miei accusatori: gl’uni che m’accusano da poco, gl’altri [18e] che invece lo fan da tempo, dei quali io sto parlando, e concedete che io debba difendermi prima contro di loro: ecco, voi ascoltaste prima questi accusatori e molto di più di quelli posteriori.
E sia. Bisogna difendersi dunque, o cittadini Ateniesi, e tentare [19a] di strappare da voi quella menzogna a cui da molto tempo tenete, in così poco tempo. Vorrei quindi che così avvenisse, se fosse meglio per voi e per me, e fare qualcosa in più, difendendomi. Credo tuttavia che questo sia difficile, e non m’è assolutamente nascosto quanto lo sia. Nondimeno tutto questo vada come piace a Dio, mentre alla legge bisogna ubbidire e bisogna difendersi.
Note
(1) Questo discorso è la versione platonica dell’autodifesa di Socrate al processo in cui fu condannato a morte nel 399 a.C. quale corruttore dei giovani e negatore degli dèi in cui credeva la sua città, Atene. Gli accusatori, Anito e Meleto, appartenevano alla fazione democratica. Cinque anni prima, l’Atene democratica era uscita sconfitta dalla guerra del Peloponneso contro Sparta, e, dopo il sanguinoso regime oligarchico filospartano dei Trenta Tiranni, si era da poco ripresa, ma nell’instabilità perdurante dopo queste traumatiche vicende, Socrate fu usato come capro espiatorio dei mali della città, secondo la strategia, da sempre cara all’uomo, di affrontare problemi complessi e implicanti dinamiche impersonali con soluzioni semplicistiche e ostili nei confronti di chi, per un motivo qualsiasi, si stacchi dall’ideologia socialmente approvata o autoritariamente imposta. Nel caso specifico, Socrate, pur non dichiarandosi mai antidemocratico, aveva avuto spesso come interlocutori aristocratici di spicco come Alcibiade e Crizia (uno dei Trenta, zio materno di Platone), il comportamento criminale dei quali aveva gettato ombre anche su di lui. Su un piano più ideale, poi, essendo filosofo, Socrate non si accontentava delle soluzioni tradizionali ai problemi, ma ne cercava di argomentate; in decenni d’indagini pubbliche aveva mostrato alle persone più disparate la necessità di argomentare meglio, la qual cosa però dallo sguardo superficiale delle masse era percepita come un’operazione solo demolitoria. L’insofferenza politica e quella ideale nei confronti di Socrate si saldarono catastroficamente per il fatto che i democratici, soprattutto quelli moderati come i suoi accusatori Anito e Meleto, dopo un secolo di governo avevano ormai fatto propri come sostegno del loro potere i valori tradizionali.
(2) Qui Socrate denuncia un malinteso durato decenni: veniva confuso con i filosofi della natura (che limitavano o purificavano l’intervento divino nella spiegazione dei fenomeni) e con i sofisti (che insegnavano ad argomentare ingegnosamente le proprie tesi, non sempre in maniera onesta).
(3) Riferimento ad Aristofane (forse il più grande autore comico di tutti i tempi), che nella commedia Nuvole aveva calcato pesantemente sui pregiudizi detti.
Brano seguente: Platone, Apologia di Socrate (2)