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Argomenti epicurei contro il timore della morte (4)

Argomenti epicurei contro il timore della morte (4)

Mag 15

Articolo precedente: Argomenti epicurei contro il timore della morte (3)

 

Primo argomento

Nessun soggetto di danno

 

2. Discussione

Nello scorso articolo abbiamo presentato una prima riserva sull’argomento “nessun soggetto di danno”: il suo intellettualismo. Vediamo ora una seconda possibile critica.

 

2.2. Morte come stato o condizione

Un secondo problema non banale dell’argomento è capire che cosa Epicuro intenda per ‘morte’. Ne esistono almeno tre concetti, che qui distinguiamo a grana grossa: la morte come processo (morire), la morte come evento (termine della vita o decesso), la morte come stato (essere morti).

Nella sua prima accezione, la morte è il processo attraverso cui la vita di un essere vivente si estingue progressivamente, fino alla sua totale cessazione. Nel secondo senso, la morte è un evento momentaneo, irreversibile, che può accadere durante il processo del morire oppure segnare il suo compimento. Infine, la morte è lo stato in cui un essere vivente è privo di vita, ossia non più vivente: trovarsi in questa condizione significa, semplicemente, essere morti. In questo senso, la morte non si sovrappone alla vita; non paiono esistere fatti, attività o proprietà rilevanti attribuibili contemporaneamente all’una e all’altra.

Sembra che Epicuro si riferisca a quest’ultimo concetto di morte: possiamo averne una riprova applicando all’argomento gli altri due concetti. Il perno del ragionamento consiste nell’affermazione che noi e la morte non coesistiamo, pertanto non ne possiamo essere danneggiati. Ora, se consideriamo il processo del morire o l’evento della fine della vita, costatiamo che entrambi implicano quella coesistenza che l’argomento epicureo nega.

  • Se l’argomento si riferisse alla morte come processo, il soggetto di danno sarebbe compresente a ciò che gli arreca danno, perché può capitare di morire solo a ciò che vive. In questo caso, tale soggetto sarebbe un essere vivente che sopporta gli effetti della morte proprio negli istanti in cui sta morendo.
  • Un’analoga compresenza sarebbe presupposta se l’argomento intendesse la morte come evento: per quanto istantaneo, è plausibile affermare che il decesso abbia qualche effetto – probabilmente dannoso – su chi muore, poiché proprio allora perdiamo l’ultima traccia della capacità vitale che ci sostiene.

In entrambi i casi, data la coesistenza tra soggetto (vivente) di danno e morte (come processo o come evento), questa ci può danneggiare nel momento stesso in cui capita e per tutto il tempo che permane con noi – presumibilmente fino al nostro totale e definitivo spegnimento. Dunque non può essere che Epicuro consideri la morte in uno di questi due sensi.

Resta la possibilità che la intenda come stato o condizione, ossia come “essere morti”. Difatti, è possibile essere morto solo per ciò che è stato vivo, e che però vivo non è più, essendo venuta meno ogni sua attività vitale. In questo caso, la morte corrisponde alla condizione nella quale la vita è cessata. A differenza del decesso e del morire, lo stato di morte non rientra nel nostro campo di esperienza (che dipende dal fatto di essere vivi) perché è la negazione stessa della condizione di possibilità della nostra esperienza. Per questa ragione – e forse solo per questa – Epicuro può affermare che la morte non c’è quando noi viviamo [*].

Tuttavia, stabilito che nel suo argomento Epicuro intende la morte come stato, sorgono almeno due obiezioni. Da un lato, potremmo rifiutare la tesi che lo stato di morte sia ciò che ci turba (di più) e che, perciò, dobbiamo affrancarci proprio da questo timore. Nonostante l’argomento epicureo possa risultare molto convincente qualora lo si applichi a questa accezione di ‘morte’, rimane perfettamente razionale temere la morte come evento – che, per quanto fulmineo, ci colpisce strappandoci l’ultimo soffio vitale – o, soprattutto, come processo, con la sofferenza che può accompagnarlo.

Forse è la morte che prima o poi coesisterà con noi ciò che ci spaventa di più, non quello stato di privazione di vita che non può essere compresente con noi. Del primo caso, infatti, molto probabilmente avremo esperienza, e abbiamo ragione di prevedere che si tratterà di un’esperienza spiacevole. Al contrario, Epicuro sembra concentrarsi solo sulla condizione che è “dopo” o “oltre” noi stessi, quando ormai la nostra vita se n’è andata. Ma il problema della morte non risiede tanto nella condizione già raggiunta dell’assenza di vita, quanto nel processo che conduce a quella assenza o nell’evento che la schiude irreversibilmente. Pertanto il timore rivolto agli istanti in cui sentiremo sfumare la nostra vita è del tutto legittimo.

D’altra parte, pur concedendo che le nostre paure dipendano (anche) dalla considerazione della morte come stato o condizione, e non (solo) come processo o come evento, potremmo respingere l’idea che esse derivino dal modo particolare in cui Epicuro concepisce tale stato, ossia come stato di non esistenza. Approfondiremo questa critica nel prossimo articolo.

 

Nota

[*] Sembra che L. Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus, esponga una prospettiva molto simile nelle proposizioni 6.431 («[…] alla morte il mondo non s’altera, ma cessa») e 6.4311 («La morte non è un evento della vita. La morte non si vive»).

Articolo successivo: Argomenti epicurei contro il timore della morte (5)


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