Temi e protagonisti della filosofia

Diogene Laerzio su Polemone (IV, 16-20)

Diogene Laerzio su Polemone (IV, 16-20)

Feb 13


16 Polemone era figlio di Filostrato, ateniese, del demo di Oione. Quand’era giovane era così intemperante e dissoluto che portava eziandio con sé dell’argento per offrire pronta soddisfazione ai desideri; ne celava eziandio nelle fessure, altroché. Anche nell’Accademia, presso una qualche colonna, fu trovata una moneta da tre oboli infilata in questo nascondiglio disponibile per un proposito consimile a quello verbalizzato prima. Dunque una volta, insieme con i giovani, fatto di alcol e con la corona conviviale, arrivò alla scuola di Senocrate; questi, dunque, per nulla distratto, verbalizzò comunque la sua lezione; era, dunque, pertinente alla temperanza. Ascoltando, dunque, il ragazzo a poco a poco fu conquistato, e in questo modo divenne un ingegno così laborioso che superò gli altri, cosicché egli stesso divenne diadoco di questa scuola, a partire dalla centosedicesima Olimpiade.

17 Professa, dunque, Antigono di Caristo, nelle Vite, che il padre di costui era il primo dei cittadini e allevava cavalli per le corse coi carri. Sostiene, dunque, che Polemone sarebbe stato citato in giudizio per maltrattamento dalla moglie, giacché andava insieme ai ragazzi. Comunque il suo temperamento ottenne tanta eticità quando ebbe cominciato a filosofare che permaneva sempre, in qualunque occasione, in uno schema di contegno della medesima forma. Era inalterabile altresì colla voce; anche per questa disposizione Crantore fu conquistato da questo soggetto. Così, ecco che quando un cane rabbioso gli sbranò il polpaccio rimase col suo consueto colorito non impallidendo; e, ingeneratasi confusione nella polis, con la gente che domandava notizie su quest’occorrimento, rimase impassibile.

Dunque, anche nel corso delle rappresentazioni teatrali non era simpatetico. 18 Ecco dunque: quando in un’occasione Nicostrato, chiamato Clitennestra, lesse qualcosa del Poeta a costui ed a Cratete, quest’ultimo si dispose ad assimilare l’effetto, mentre per l’altro fu come se non avesse udito. E si può saldare a costui quel che professa Melanzio il pittore nella Perlustrazione sulla pittura, tale e quale: professa, ecco, che una qualche persuasione altera sul proprio conto ed una qualche secchezza devono percorrere le opere d’arte e similmente i temperamenti etici. Professava, dunque, Polemone che si deve fare ginnastica negli atti pratici e non nei teoremi dialettici, come se si fosse imbevuti di qualche compendio tecnico di arte musicale e non se ne concretizzasse il contenuto, cosicché si sarebbe ammirati nel questionare, però si discorderebbe con sé stessi nel fare.

Era, dunque, qualcuno di civile e generoso, che protestava contro i proferimenti «conditi con aceto e silfio», per i quali Aristofane biasima Euripide; 19 questi, come egli stesso professa:

Questi sono schifezza contro natura profusa su un magno pezzo di carne.

Allegava altresì argomenti per le sue tesi non sedendo mai – professano –, ma se ne occupava passeggiando. Disponendo dunque di questa nobile natura, era onorato nella polis. D’altronde, disponeva eziandio del tempo estraniandosi nel giardino, presso cui i discepoli s’erano costruiti piccoli ripari, così da abitare vicino al santuario delle Muse e all’Esedra. A quel che sembra, dunque, Polemone ha emulato Senocrate in tutto; e Aristippo, nel quarto libro della Perlustrazione della dissolutezza degli antichi, professa che amava costui. Sempre, ecco, Polemone ha menzionato costui, dunque indossò l’immacolatezza e l’austerità di quest’uomo così come la sua gravità, che son come avvicinabili a un’armonia dorica. 20 Dunque, era anche estimatore di Sofocle, e a molto più apprezzamento davano il destro quei passi nei quali – così commenta il poeta comico – nella composizione dei versi

sembrava che un qualche cane molosso avesse poetato insieme con costui

indi quelli che erano – così sostiene Frinico –

vino non dolciastro né confuso, tutt’altro: di Pramno.

Diceva, dunque, che, mentre Omero era un Sofocle epico, Sofocle era un Omero tragico.

Trapassò, dunque, ormai vecchio, soverchiato dalla consunzione, dopo aver lasciato una fornita collezione di reliquie scritte. Concludendo, v’è un nostro epigramma indirizzato a costui:

Non te n’accorgi? Custodisco Polemone, che ha fatto tumulare in questa tomba
un’infermità, questo diro per gli uomini patimento.
Meglio, dunque: non Polemone, bensì questo corpo: questo, ecco, egli stesso,
disponendosi a passare a miglior vita negli astri, ha sacrificato a terra.

La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.

Brano precedente: Diogene Laerzio su Cratete accademico (IV, 21-23)




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