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Diogene Laerzio su Menedemo (terza parte: II, 134-138)

Diogene Laerzio su Menedemo (terza parte: II, 134-138)

Ott 30

Brano precedente: Diogene Laerzio su Menedemo (seconda parte: II, 130-134)

Per quanto concerne i docenti, dunque, disprezzava i proseliti di Platone e di Senocrate, ed anche Parabate il cireneo; ammirava, all’opposto, Stilpone; una volta, dunque, a un quesito pertinente a quest’ultimo, non rispose nient’altro tranne questo: ne evocò la liberalità. Menedemo era anche difficile da comprendere e difficile da sconfiggere come antagonista nelle diatribe quando assemblava i ragionamenti; progrediva versatilmente, d’altronde, in tutte le discipline e sceglieva con competenza euristica gli argomenti adatti; era comunque destrissimo nell’eristica, come afferma Antistene nelle Successioni dei diadochi dei filosofi. Costumava, dunque, sviluppare questa questione tramite domande: «Quel ch’è altro da qualcos’altro è altro da esso?». «Sì». «Il profittevole, dunque, è altro dal bene?». «Sì». «Dunque il bene non è profittevole».

135 Eliminava d’altra parte – dicono – dall’insieme degli assiomi quelli apofatici, facendo valere soltanto i catafatici; e, nell’insieme di questi, accogliendo soltanto le proposizioni semplici eliminava le non semplici – intendo, dunque, le complesse congiuntive e le condizionali. Eraclide, dunque, afferma che egli era platonico, ma simultaneamente derideva le discussioni dialettiche; per questo, quando Alessino una volta gli chiese se avesse posato dal percuotere il padre, rispose: «Tutt’altro: io giammai l’ho percosso, dunque non poso». Un’altra volta, dunque, giacché quello allegava che bisogna risolvere l’anfibolia rispondendo coi vocaboli «sì» ovvero «no», revocò in dubbio questa dottrina così: «Sarebbe ridicolo ubbidirvi nel solco delle vostre convenzioni avendo la possibilità di resistere innanzi alle porte». Dunque, giacché Bione s’occupava molto diligentemente del contrasto a coloro che professavano la mantica, obiettava che così egli sgozzava cadaveri.

136 Inoltre, allorché ascoltò qualcuno magnificare qual massimo bene la possibilità d’ottenere tutto ciò che si desidera, revocò in dubbio questa dottrina obiettando: «Ma bene molto maggiore è questo: desiderare piuttosto quel che occorre». Secondo la fama attingibile da Antigono di Caristo, dunque, egli non scrisse né assemblò componimento alcuno, coll’obiettivo di non intorpidirsi in qualche dogma. D’altronde, nelle indagini – sempre secondo la fama riferita da Antigono – era tanto combattivo che ne usciva sofferente per le occhiaie tumefatte. D’altronde, benché fosse tale nei soggetti intellettuali, nelle azioni era mitissimo. Ecco un esempio: in più occasioni corbellò e dileggiò duramente Alessino, sia pure, ma fece pur sempre una buona azione per lui accompagnando da Delfi a Calcide sua moglie, che era preoccupata per i furti e gli attacchi dei delinquenti incontrabili procedendo.

137 Era dunque amichevole in massimo grado, come sembra evidenziare la concordia presente nel rapporto con Asclepiade, che non differiva in nulla dall’affetto provato da Oreste nei confronti di Pilade (peraltro il più vecchio era Asclepiade, cosicché si diceva che costui era il poeta e invece Menedemo era l’attore). Dunque, secondo la fama, allorquando Archipoli mise a loro disposizione tremila dracme, giacché s’impuntarono per decretare chi dei due le avrebbe prese per secondo, nessuno dei due le prese. Secondo la leggenda, poi, avrebbero anche sposato la stessa donna; ma Asclepiade aveva sposato la madre, Menedemo, invece, la figlia. E, al trapasso della moglie di Asclepiade, questi si prese quella di Menedemo; quest’ultimo, dunque, quando ottenne lo status di principe della polis, si sposò con una ricca; ciononostante, essendovi una singola casa per le due coppie, Menedemo ne affidò l’amministrazione alla prima moglie.

138 Comunque Asclepiade perì per primo in Eretria, quand’era ormai vecchio, dopo aver vissuto da coinquilino assieme a Menedemo in modo assai essenziale, astenendosi, lui maggiorente, dall’uso dei cospicui capitali; dunque, dopo qualche tempo, giacché l’amato di Asclepiade, in occasione di una festa a cui s’era recato, era stato chiuso fuori da alcuni giovani, Menedemo ordinò di accoglierlo in casa, dicendo evocativamente che Asclepiade, anche se era sotto terra, gli apriva le porte. Coloro che s’occupavano dei loro bisogni, dunque, erano Ipponico il macedone ed Agetore di Lamia; quest’ultimo diede a ciascuno dei due trenta mine, Ipponico invece diede a Menedemo duemila dracme, sborsate in vista della dote delle sue figlie. Queste, dunque, erano tre, come afferma Eraclide, nategli da una donna di Oropo.

La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.

Brano seguente: Diogene Laerzio su Menedemo (quarta parte: II, 139-144)


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