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Diogene Laerzio su Menedemo (seconda parte: II, 130-134)

Diogene Laerzio su Menedemo (seconda parte: II, 130-134)

Ott 23

Brano precedente: Diogene Laerzio su Menedemo (prima parte: II, 125-130)

Secondo la fama, dunque, era incline a evitare le fatiche ed indifferente verso le contingenze della scuola: ecco, non era possibile distinguere alcun ordine presso costui e i banchi non venivano neanche disposti in cerchio, tutt’altro: ovunque ciascuno si trovasse, passeggiando o seduto, ascoltava, e lui stesso si comportava in questo modo. 131 Ebbene, secondo la fama era incline ad agitarsi e, fra l’altro, anche amante della reputazione dignitosa: dunque, nei primi tempi, quando lui ed Asclepiade stavano costruendo un edificio insieme a un architetto, mentre Asclepiade si presentava nudo sul tetto offrendo l’argilla, lui di contro, se vedeva arrivare qualcuno, si discostava celandosi. Quando, poi, s’occupò di politica, era tanto propenso ad agitarsi che, svolgendo l’ufficio di mettere l’incenso nel turibolo, lo dissipava. Giacché, dunque, Cratete lo assillava e lo attaccava perché stava politicando, incaricò alcuni di metterlo in carcere; l’altro, cionondimeno, ne sorvegliava il transito e, sporgendo il capo, lo chiamava «nato da Agamennone» ed «Egesipoli».

Era dunque, in qualche modo, anche un po’ superstizioso. 132 Ecco un esempio: in un’occasione, quand’era in albergo insieme con Asclepiade, ignorandolo mangiò carni gettate, e successivamente, saputolo, si nauseò e sbiancò, sinché Asclepiade non lo rimproverò, verbalizzando quest’osservazione: non erano state per nulla le carni a veicolare il disturbo, bensì la sua supposizione su di esse. D’altra parte, era uomo magnanimo e liberale. Per quanto concerne, poi, la sua condizione somatica, quando era già subentrata la vecchiaia era ancora robusto ed abbronzato a vedersi, per nulla meno d’un atleta, non pingue ed aitante; in merito alla grandezza, era proporzionato, come evidenzia la sua statuetta rintracciabile ad Eretria nello stadio vecchio, siccome vi è effigiato, come ovvio, pressoché nudo, mostrando la più parte del corpo.

133 Dunque, era anche un ospite sollecito e, a ragione del clima disagevole nella malsana Eretria, metteva insieme simposi piuttosto affollati; in questi comparivano anche poeti e musicisti. Accoglieva cordialmente, dunque, Arato, Licofrone (il poeta compositore di tragedie) e il rodio Antagora; ma, in misura maggiore rispetto a tutti gli altri, si profondeva nello studio di Omero; poi coltivava quello dei melici; comunque si occupava anche di Sofocle; dopodiché coltivava pure lo studio di Archeo, per il quale riservava il secondo posto, nel dominio del dramma satiresco, dacché il primo posto lo dava invece a Eschilo. Per questo, secondo la fama, contro i suoi antagonisti politici proferiva queste versi:

Forse anche il celere dai deboli è sorpreso,
ed è sorpresa dalla tartaruga l’aquila in breve tempo?

Questi, dunque, sono versi di Acheo, estratti dal dramma satiresco Onfale. 134 Sbagliano dunque quanti narrano che egli non abbia letto alcunché tranne la Medea di Euripide, che alcuni ritengono essere di Neofrone di Sicione.

La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.

Brano seguente: Diogene Laerzio su Menedemo (terza parte: II, 134-138)


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