Diogene Laerzio su Bione (prima parte: IV, 46-51)
Diogene Laerzio su Bione (prima parte: IV, 46-51)
Set 1146 Bione, quanto alla genia, era boristenita. Di quali genitori, dunque, fosse figlio e da quali circostanze sia stato portato alla filosofia, egli stesso lo dichiara ad Antigono, siccome, quando quest’ultimo gli chiese:
Chi, donde sei tra gli uomini? Quale la tua polis? E i genitori, dunque? [Od., I 170; X 325]
Bione, subodorando di esser stato calunniato, gli rispose: «Mio padre era un liberto che si astergeva il naso col braccio – intendeva dunque significare che era un venditore di pesci in salamoia –, boristenita quanto alla genia, che non aveva personalità [prósōpon], ma una scritta sul viso [prosṓpou], simbolo dell’asprezza del suo despota; mia madre, dunque, era tale quale un uomo come mio padre avrebbe potuto sposare, provenendo da una casa di prostituzione. Successivamente mio padre, dacché aveva commesso qualche frode nei dazi, fu venduto assieme a tutto il patrimonio, inclusi noi. Così un retore compra me, che ero giovane e di bella presenza; 47 e costui, morendo, mi lasciò tutto quanto. Così io, dopo aver bruciato tutti quanti i suoi scritti ed essermi fregato tutto, venni ad Atene e filosofai.
Di questa genia e di questo sangue mi vanto d’essere [Il., VI 211].
Questi sono i dati che mi concernono. Dunque Perseo e Filonide la smettano di raccontare queste storie; studiami, dunque, a partire da quel che ho esternato da me stesso».
In verità, Bione era anche versatile e un astuto sofista che ha dato moltissimi orientamenti impiegabili da coloro che vogliono calpestare la filosofia; in alcune occasioni, d’altronde, era anche gradevole e capace di godere del fasto. Ha lasciato, dunque, moltissimi commentari, ma anche apoftegmi utili per il successo pratico. Per esempio, in un’occasione in cui fu rimproverato per non aver dato la caccia a un ragazzo, osservò: «Impossibile, comunque, tirare con un uncino un formaggio tenero». 48 La volta in cui gli fu chiesto chi si contorce nell’agonia più grande, rispose: «Colui che vuol essere massimamente felice». Quando gli fu chiesto se si debba sposarsi (questo proferimento, infatti, è attribuito anche a costui), rispose: «Se sposi una brutta, l’avrai come pena; se, d’altronde, sposi una bella, l’avrai in comune con altri».
Quanto alla vecchiaia, asseriva che è un porto di mali, ancorché in esso tutti si rifugino. Affermava che la gloria è madre di disagi insopportabili; la bellezza: bene altrui; la ricchezza: nerbo degli affari. Biasimò così uno che aveva sperperato i propri possedimenti: «Anfiarao fu inghiottito dalla terra, mentre tu hai inghiottito la terra». Grande male non riuscire a soffrire un male. Dunque, contestava anche coloro che bruciano i cadaveri, come se fossero insensibili, mentre accendono lumi presso di essi, come se ubbidissero alle sensazioni. 49 Dunque, diceva sempre che è preferibile regalare a un altro la propria bellezza in fiore piuttosto che cogliere quella altrui, allegando che in questo caso il male danneggia sia nel corpo sia nella psiche. Disprezzava, dunque, anche Socrate, allegando che, se concupiva Alcibiade e se ne asteneva, era stupido; se, d’altra parte, non lo concupiva, non faceva nulla di straordinario. Affermava che è accessibile la via diretta in Ade, dacché, ecco, compiono il tragitto a occhi chiusi. Muoveva rimproveri ad Alcibiade, giacché quand’era adolescente sottraeva i mariti alle mogli, mentre quando divenne giovanotto sottraeva le mogli ai mariti. A Rodi, mentre gli Ateniesi si esercitavano nella retorica, era docente di discipline filosofiche; biasimò così colui che glielo rimproverò: «Ho portato grano e dovrei vendere orzo?».
50 Diceva, dunque, che gli inquilini dell’Ade sarebbero puniti più solennemente se dovessero portare acqua in recipienti integri e non forati. A un petulante che lo pregava pressantemente d’aiutarlo, rispose: «Mi presterò a fare quanto ti abbisogna sempreché mandi degli intercessori e non venga tu stesso». Mentre navigava assieme a dei delinquenti, s’imbatté nei pirati; quando quelli dissero: «Siamo perduti se saremo riconosciuti», esclamò: «Io invece lo sono se non sarò riconosciuto». Definiva la presunzione impedimento al progresso. Biasimò un ricco spilorcio proclamando: «Non è costui a possedere il patrimonio, tutt’altro: è il patrimonio a possedere lui». Diceva che gli spilorci si preoccupano delle sostanze come se fossero di loro proprietà, ma non ne colgono in effetti alcun vantaggio, come se fossero di altri. Affermò che quando si è giovani ci si distingue per il coraggio, mentre quando si è vecchi si raggiunge l’acme per la saggezza. 51 Affermò che la saggezza differisce in dignità dalle altre virtù tanto quanto la vista dagli altri sensi. Affermava che non si deve biasimare la vecchiaia, alla quale – affermava – tutti speriamo di giungere. Biasimò così un invidioso incupito: «Non so se s’è ingenerato un male per te o un bene per un altro». Diceva che l’umiltà di natali è una cattiva compagna per la parresia,
giacché renderebbe schiavo qualsiasi uomo, anche se avesse bocca audace [Euripide, Ippolito, 424].
Gli amici comunque sia sono da conservare, cosicché non offriamo il destro alla lettura d’aver frequentato dei malvagi o d’aver rifiutato dei buoni.
La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.
Brano seguente: Diogene Laerzio su Bione (seconda parte: IV, 51-58)