Utilitarismo dell’atto e della regola
Utilitarismo dell’atto e della regola
Lug 21[ad#Ret Big]
Le due formulazioni principali dell’utilitarismo moderno sono l’utilitarismo dell’atto e l’utilitarismo della regola.
Quest’ultimo nasce anche per fronteggiare la critica delle “situazioni paradossali”, esempi creati ad hoc per mettere in crisi una teoria etica.
Immaginiamo ad esempio che si ponga ad un utilitarista un quesito di questo genere:
“Supponiamo che Fabio infligga un danno fisico ad Antonio ma che il beneficio che ne riceve sia, per qualche ragione, maggiore del danno inflitto. In questo caso, il consequenzialismo dell’atto che prescrive la massimizzazione sosterrebbe che Fabio non ha agito ingiustamente” [1]
Ora, è chiaro che questa decisione, anche qualora fosse giustificata nei termini di un calcolo orientato all’ottimizzazione del benessere complessivo, pare contraria alle nostre comuni intuizioni morali. Osserveremo solo di sfuggita che questo esempio tocca un problema fondamentale dell’utilitarismo, cioè il suo non essere apparentemente in grado di rendere conto del sentimento di inviolabilità della persona umana (concetto su cui, invece, sono ad esempio fondate tutte le etiche neokantiane).
Torniamo al nostro esempio: l’azione che abbiamo appena considerato (cioè l’arrecare dei danni fisici a una persona qualora questo ottimizzasse il benessere complessivo) non potrebbe certamente essere accettata da un utilitarista come norma per l’agire. Per convincersene basterà pensare allo stato di insicurezza che si genererebbe nella popolazione qualora si diffondesse l’idea che chiunque potrebbe aggredirmi se solo questo avesse una utilità per il mio aggressore. Muovendo da queste considerazioni, gli utilitaristi della norma argomentano che l’azione va rifiutata. Essi in sostanza ritengono che per stabilire le norme si debba valutare astrattamente, in generale, se applicando la regola il benessere complessivo aumenti.
A questo punto, l’obiezione di quanti non sono favorevoli all’utilitarismo della norma è fondamentalmente così sintetizzabile:
- Se questa forma di utilitarismo è sempre consequenzialista ed è sempre orientata a massimizzare il benessere complessivo, essa dovrebbe portare alle stesse conclusioni di un utilitarismo dell’atto (i due sistemi sarebbero cioè, come si dice, estensionalmente equivalenti).
- Se invece l’utilitarismo della norma prescrive delle azioni che, neanche sul lungo termine, non ottimizzano il benessere complessivo, esso è più una morale deontologica che una dottrina utilitarista.
Per chiarire questa obiezione, devo introdurre brevemente il concetto di “soglia critica”: esso serve a indicare come uno scarto quantitativo possa, superata una certa soglia, portare a dei cambiamenti qualitativi. L’esempio classico è quello delle elezioni.
È infatti evidente che il valore del singolo voto di un elettore varierà, in ragione del fatto che possa o meno concorrere a far vincere le elezioni: il valore di un voto ininfluente per l’esito elettorale è cioè diverso da quello di un voto influente, pur essendo (apparentemente) entrambi gli atti appartenenti alla stessa classe.
Chiarito questo punto, si vedrà subito come gli argomenti dell’utilitarista della norma divengano più deboli. Ci basterà infatti riformulare il nostro esempio, supponendo che quel singolo atto di violenza non andrà a influenzare il comportamento di alti agenti ed ecco che la situazione paradossale si ripresenterà inalterata. A questo punto, l’unica opzione per l’utilitarista della norma sarebbe di sostenere che in ogni caso l’azione non vada compiuta, perché vi è una norma che lo vieta. Ma questo sembrerebbe tradire lo spirito consequenzialista dell’utilitarismo.
In conclusione, va osservato che, per quanto queste obiezioni possano creare dei problemi all’utilitarismo della norma, esso resta in generale una proposta che riesce a rispondere alle richieste di corrispondenza con il senso morale comune in maniera molto soddisfacente.
Note:
[1] Prendo questo esempio da Brad Hooker, “Le virtù del conseguenzialismo della regola”, «Rivista di filosofia», 32008, pag. 500.