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METAFISICA, LIBRO IV, capitolo 5: contro il relativismo di Protagora

METAFISICA, LIBRO IV, capitolo 5: contro il relativismo di Protagora

Nov 05

Analizziamo oggi il capitolo 4 del libro 4 della Metafisica di Aristotele, titolato dai commentatori “il relativismo di Protagora e il principio di non contraddizione”. Questo capitolo si presenta come una critica di Aristotele innanzitutto a Protagora e poi ad altri personaggi ritenuti saggi i quali sembrano negare, anche implicitamente, il principio di non contraddizione in alcune loro note affermazioni. Aristotele ne approfitta, come nel capitolo precedente, per fondare per via confutativa il principio di non contraddizione mostrando l’inconsistenza degli argomenti dei detrattori.

Di Protagora è la celebre affermazione che indica l’uomo come misura di tutte le cose, ed in modo esteso di ciò che è e di di ciò che non è. Altra tesi di Protagora, sempre secondo l’interpretazione di Aristotele (la quale ricordo non ha come fulcro l’attendibilità storica), è l’identità di apparenza e verità, o meglio di come l’apparenza sia sempre veritiera senza quindi che vi sia uno scarto fra sensazione, percezione, conoscenza, realtà (ontologia). Da ciò deriva che se gli uomini hanno opinioni differenti riguardo al medesimo oggetto allora tutte queste opinioni, in quanto apparenze (sensazioni), sono vere (o più precisamente secondo l’interpretazione aristotelica, sono al contempo vere e false); ne consegue che opinioni contraddittorie risultano parimenti vere (e insieme false). Questa ultima formulazione è una evidente negazione del principio di non contraddizione formulato da Aristotele e già in parte criticata nel capitolo precedente. Simili argomentazioni contro il principio di non contraddizione, simili a quella che si può rilevare in Protagora, hanno secondo Aristotele diverse cause.

La prima è che molti naturalisti pensarono i principi come contrari e mescolati, più precisamente necessitando il divenire di un diveniente (ciò che era prima della trasformazione) e un divenuto (il risultato del divenire) e non potendo avere come principio del diveniente il nulla (poiché per definizione nulla può derivare dal nulla), allora essere e nulla di conseguenza debbono presentarsi come principi parimenti originari e mescolati. L’alternativa a questo tipo di pensiero è negare il divenire, come per esempio fa Parmenide e affermare un solo principio: l’essere, questione già confutata da Aristotele nei primi due libri della Metafisica. Aristotele qui si richiama alla tesi dell’originaria mescolanza di Anassagora e a Democrito, interpretando la differenza fra atomi e vuoto come una mescolanza di essere e non essere. A tutti costoro Aristotele risponde che ignorano la differenza fra la potenza e l’atto, così mentre i contraddittori possono sussistere entrambi in potenza (è possibile che Socrate sia seduto e anche che sia in piedi), non possono invece sussistere entrambi in atto (in realtà Socrate è o seduto o non seduto). In secondo luogo costoro affermando solo il divenire e nel tentativo di fondarlo, dimenticano che esistono non solo sostanze sensibili e transeunti ma anche sostanze sovrasensibili e immobili dalle quali si origina, secondo lo stagirita, il mutamento degli enti sensibili (come già visto precedentemente).

Ancora, secondo Aristotele, insorgono argomentazioni simili a quelle di Protagora dalla diffusa e sbagliata considerazione della sensazione, la quale viene giudicata veritiera in modo troppo semplicistico. Aristotele riprende il tema già esposto sopra sottolineandone alcuni aspetti: risulta per lui evidente l’insensatezza di chi fa troppa affidabilità sulla sensazione giacché spesso una medesima cosa appare in modi diversi a più individui, in diversi momenti, secondo il loro grado di esperienza riguardo all’oggetto in questione; non solo, la medesima cosa nel tempo può apparire differente anche al medesimo individuo; inoltre ogni apparenza è vera per chi l’esperisce (anche sensazioni completamente false come allucinazioni o sensazioni confuse) negando quindi ogni possibilità di discernere quale apparenza sia vera e quale falsa. Un’ulteriore accusa di relativismo viene mossa a Empedocle, Anassagora, Democrito e anche ad Omero i quali avrebbero, secondo Aristotele, troppo semplicisticamente affermato una corrispondenza fra sensazione e pensiero e surrettiziamente una diretta corrispondenza fra realtà e pensiero, secondo l’errata formulazione che il pensiero colga direttamente la realtà.

Di fronte a quella che sembra una vasta affermazione del relativismo presso i saggi (cosa fra l’altro non poi così diversa dai nostri tempi moderni) Aristotele risponde con una forte rassicurazione per i filosofi intenti nel loro compito, in quanto anche se secondo tali saggi conoscere la verità sembrerebbe un vano tentativo di “inseguire gli uccelli in volo” così non è poiché essi parlano in modo “verosimile ma non vero”. In primo luogo perché se seguiamo questi argomenti che conducono al relativismo dobbiamo anzitutto negare ogni forma possibile di conoscenza, come espresso nel capitolo precedente. In secondo luogo poiché tali argomenti sul divenire irrefrenabile di ogni cosa tengono conto solamente degli oggetti sensibili i quali sono per loro natura in mutamento e passano dall’essere al non essere. Inoltre gli enti sensibili, essendo via via più lontani dalle cause prime sono gli enti in cui è presente la più alta percentuale di indeterminazione, mentre il lavoro della conoscenza è proprio risalire agli enti più semplici, originari e determinati (come ad esempio gli universali o l’essere in generale: la sostanza). Aristotele specifica anche che la parte sensibile è proprio la minor parte e in un certo senso l’ultima per importanza nell’universo.

Inoltre anche il divenire non è del tutto indeterminato poiché se qualcosa si corrompe e passa al nulla vi sarà una mancanza determinata, propria di quel qualcosa, così sarà anche razionale il passare all’essere nella generazione, esistendo un qualcosa da cui diviene ciò che diviene e delle caratteristiche determinate che permettono tale generazione. Ancora, è necessario, come espresso nel libro 2 della Metafisica che il divenire abbia un termine e non sia completamente indeterminato nel tempo, che cioè il divenire abbia una causa indiveniente o eterna e che il suo darsi sia ancora una volta razionale e cioè che si manifesti in forme determinate, così vi sono cose determinate che passano all’essere e poi al non essere e non un unico indistinto miscuglio indeterminato. Bisogna infine distinguere fra il mutare della qualità e quello della quantità, poiché l’essenza di una cosa è la sua forma (e anche la sua definizione è essenza) allora il mutare della quantità della cosa non ne cambierà l’essenza; mentre il variare dell’essenza determinerà il passare della cosa determinata dall’essere al non essere. La nostra conoscenza è infatti conoscenza dell’essenza o della forma delle cose.

Aristotele pertanto arriva a dire che:

In ordine alla verità <si deve dire che> non tutto ciò che appare è vero.

E’ evidente che il compito del filosofo sarà distinguere fra apparenza e verità, un tema che attraverserà più di duemilacinquecento anni di filosofia.

Infine, coloro i quali credono che la realtà sia meramente di natura sensibile, quindi senza un sostrato, incorrono in contraddizione. Infatti, se la sensazione è tale soltanto per il percipiente allora se il percipiente non esistesse di conseguenza la realtà stessa non esisterebbe. E ciò è impossibile per Aristotele! Deduciamo la convinzione aristotelica nella visione del cosmo greco antico inteso come ordine (assolutamente indipendente dall’uomo), piuttosto che una moderna visione antropocentrica. In questa visione l’uomo è un ente imperfetto e transitorio a cui accade in modo quasi casuale di condividere, in parte, caratteristiche di enti eterni e divini di cui è un sottoprodotto. Nel cosmo come ordine inoltre è insita l’idea di una conoscenza razionale possibile dove il relativismo è soltanto errore o mancanza di informazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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