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METAFISICA LIBRO B, PRESENTAZIONE DELLA SETTIMA APORIA

METAFISICA LIBRO B, PRESENTAZIONE DELLA SETTIMA APORIA

Giu 25

Nella settima aporia presentata nel libro B della Metafisica Aristotele si chiede se sono i principi primi fra i generi o gli ultimi che si predichino degli individui. O come pone la questione Zanatta: posto che i principi sono i generi, lo sono i generi sommi o quelli ultimi?

Sembra un rilievo inutile ma non è questione da poco e adesso vedremo perché.

Aristotele pone che siano principi i generi sommi, la tesi è che i più universali sono l’“essere” e l’“uno”. Un riferimento in parte ai platonici ma non necessariamente e non solo, mentre Aristotele potrebbe  concordare che l’ “essere” si dice di ogni cosa, sia essa determinata e anche indeterminata, una quantità indeterminata è infatti comunque una quantità che è. L’ “essere uno” vuole recuperare quella parte del Timeo in cui si enuncia come la prerogativa di “essere uno” è anche presupposto per la conoscibilità, lo scorgere l’Uno nei Molti sarà poi anche l’azione della già citata appercezione trascendentale kantiana. Quindi se volessimo considerare i generi sommi, secondo Aristotele sarebbero questi due: l’ “essere” e l’ “uno” (non “i molti”, questo porta a riflettere sulle conquiste del Timeo). L’ “uno” infatti è l’espressione stessa della determinatezza, insieme all’ “essere”, questione che poi verrà approfondita e riveduta da Hegel in un intenso dialogo fra Filosofia Antica e Idealismo Tedesco.

Se noi avessimo come generi l’ “uno” e l’ “essere” allora non si darebbe in alcun modo conto degli individui che nella loro diversità sarebbero comunque totalmente sussunti sotto entrambi i generi sommi rendendo inutile tutto l’impianto sinora impostato in quanto sarebbe possibile una gnoseologia molto sterile che resta appiattita sull’ “essere” senza dar conto degli enti singolari.

Se invece consideriamo l’antitesi e ammettiamo che i principi siano i generi comuni, quelli intermedi fra i generi sommi e le specie ultime, ci troveremmo in questo modo davanti ad una considerazione più vicina al senso comune. Infatti sembra più utile riconoscere le specie dei viventi che ragionare sull’ “uno” al di là di ogni essere particolare. Anche qui nascono però dei problemi: da questo punto di vista infatti le differenze privative fra i generi sembrano anch’esse ognuna per sé un universale (ad esempio l’essere “non-volante”) e quindi anch’esse potrebbero divenire dei generi. Per di più specificando l’essenza degli universali le differenze sarebbero a maggior ragione principi. Ne consegue una moltiplicazione infinita dei generi.

Infine, una ulteriore conseguenza dell’argomento a favore dei generi comuni come principi parte dalla considerazione dell’Uno Platonico come principio indivisibile (altrimenti avrebbe altri principi che a sua volta lo formano), si nota quindi che anche le specie ultime sono indivisibili e quindi a maggior ragione dovrebbero essere principi, essendo molte unità indivisibili. La conseguenza è che se vi sono un genere e una specie ultima la specie ultima in questo argomento risulta principio in maggior grado del genere e quindi i generi comuni perdono ogni importanza come principi rispetto alle specie ultime.

Viste tesi ed antitesi dobbiamo tirare le somme. Di seguito, interpolando il testo aristotelico e le varie interpretazioni emerge in misura maggiore in cosa consista un genere per Aristotele. Il genere innanzi tutto, come abbiamo già visto nelle precedenti aporie, non è separato dagli individui delle specie che designa ma vi è “incorporato”, senza gli individui infatti è inutile parlare di specie e di genere in termini Aristotelici (pena il reintrodurre il Mondo delle Idee di un certo Platonismo molto criticato da Aristotele). Il genere è tale se al suo interno sono presenti più specie, altrimenti siamo di fronte ad una specie ultima, cioè non ulteriormente scomponibile. Secondo l’esempio di Zanatta: “uomo” non è il “genere” degli uomini al cui interno sono contenuti gli individui come “specie”; “uomo” è invece Aristotelicamente “specie ultima” al cui interno vi sono gli individui uomini. Al massimo dell’universalità abbiamo i generi sommi, poi generi intermedi come “razionale”, “animale”, mentre al massimo della specificità abbiamo le specie ultime (“infime”). I generi inoltre non constano di differenze privative poiché ciò moltiplicherebbe all’infinito i generi rendendo inutile la loro funzione gnoseologica; ad esempio: tavolo è non sedia, che non corre, che non mangia, che non vola… e così via.

Fatto salvo quanto appreso nella sesta aporia che non possono essere principi sia i generi sia i costituenti primi poiché ciò produrrebbe più d’una definizione, quindi più d’una essenza, e tenendo ben a mente quanto appena appreso rispetto alla natura del genere, l’argomento Aristotelico che mi sembra dirimere la faccenda è quello che riporterò di seguito. È impossibile che l’ “essere” e l’ “uno” siano generi, infatti l’ “essere” e l’ “uno” si predicano anche delle differenze. Questo è un argomento molto sottile e su cui vi sarebbe molto da dire. Bisogna considerare che “il-non-volare” è una designazione determinata in qualche modo, se non altro nel pensiero e in quanto determina una classe di oggetti questa determinazione ha un “essere”, per quanto esso sia privativo, nel pensiero è una determinazione come le altre, e in quanto determinata questa caratteristica è anche un “uno” rispetto ad altre caratteristiche.

Siccome i generi non si predicano delle differenze (e visto che “essere” e “uno” si predicano anche delle differenze) non è possibile che “essere” ed “uno” siano generi.

In ultima analisi restano quindi come generi tutti i generi intermedi da considerare come principi esclusi i generi sommi e le specie ultime. Da notare che questa soluzione elimina anche la problematica dell’unicità delle specie ultime come principio, visto che l’ “uno” non è più principio indivisibile.


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